Unfrosted: storia di uno snack americano, la recensione
Lo spot più lungo del mondo senza neanche il carisma di Barbie: Unfrosted è puro marketing, e non del più interessante
La recensione di Unfrosted, il film diretto da Jerry Seinfeld in arrivo su Netflix il 3 maggio.
Il progetto Unfrosted dev’essere iniziato più o meno con queste parole: “come Barbie”. Il miracolo compiuto da Mattel col film di Greta Gerwig (ma anche il recente Air) provano che il terreno è maturo per alcune delle più spudorate operazioni pubblicitarie di sempre. Barbie in particolare dà ad Unfrosted un’idea di marketing diabolica: piuttosto che nascondersi è meglio che i brand si presentino in scena come personaggi, sottoponendosi volontariamente a un’autoparodia che ne evoca sì le criticità, ma in modo bonario e ridicolo, disinnescando il rischio di obiezioni che risultano già previste e superate da una metanarrazione ammiccante e consapevole.
Seinfeld & Co scavano nella storia americana in modo a tratti raggelante, come quando viene messa in scena la collusione fra grandi corporation e traffico di droga in Sudamerica. E hanno anche la faccia tosta di rievocare la corsa agli armamenti con l’Unione Sovietica, cosa che gli permette uno stuolo di citazioni all’altro mega-successo dell’anno scorso, Oppenheimer di Christopher Nolan (“abbiamo scisso l’atomo della colazione!”). Siccome però la modalità zio razzista autoconsapevole è sempre attiva, tutto ha il sapore di uno scherzo terribile che non va preso sul serio. I capitalisti sono cattivi ma alla Wonka, cioè cartoni animati, mica vorremo arrabbiarci? Si criticano da soli! Almeno una volta gli spot duravano un minuto.