Unfriended, la recensione

Classico nello svolgimento ma sperimentale nella messa in scena Unfriended è un horror appassionato più di conversazioni che di paura

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Unfriended è un horror estremamente canonico che si nasconde dietro una messa in scena peculiare e quasi necessaria. Lo screencasting, ovvero la trasmissione del proprio schermo del computer, nasce online, nei video didattici, nasce per illustrare procedimenti e tecniche, successivamente nelle webserie diventa narrazione. Nonostante preveda che tutto quel che si vede è uno schermo del computer, le diverse possibilità (telefonate skype, video che partono, canzoni in sottofondo, messaggi ricevuti ed inviati) si dimostrano più che sufficienti per narrare una storia. Unfriended promuove questa tecnica al lungometraggio (già Noah l’aveva sperimentata in un corto e Open Windows aveva tentato la strada più lunga ma con meno rigore) e dipana la sua trama nel corso di una grande conversazione skype, quindi con una stimolante unità temporale.

Cinque amici si sentono una notte via Skype, è l’anniversario del suicidio di una loro compagna di classe. La causa di tale suicidio è stata l’insostenibile umiliazione di un video che la riguardava diffuso online da qualcuno. Nella conversazione si inserisce un utente sconosciuto, sostiene di essere Blaire, la ragazza morta, e pare essere in grado di agire sui loro computer. Il suo intento è ucciderli uno ad uno ma non prima di avergli fatto confessare come abbiano contribuito con inganni, angheria e soprusi al suo suicidio.

Levan Gabriadze sembra non avere una grande opinione del cinema di paura, ricicla anche nello screencasting tecniche discutibili come le esplosioni di suono improvvise per spaventare (sono le notifiche al massimo volume) o l’uso di leggende un tanto al chilo per alimentare l’orrore ma si diverte a trasformare tutto ciò che conosciamo della narrazione audiovisiva in finestre del computer. Mentre i brani lanciati da iTunes funzionano da colonna sonora, i video di YouTube hanno il ruolo del flashback (rievocano la storia passata e il fatto di non vederli mai per intero fino alla fine nasconde allo spettatore le informazioni fondamentali) e i messaggi privati lavorano assieme alla conversazione skype per creare un doppio registro (pubblico e privato).

Il territorio che invece Unfriended sperimenta per primo è quello di costruire un film di parola tenendo quasi sempre inquadrati tutti i protagonisti, di lavorare in maniera teatrale meglio di qualsiasi messa in scena canonica. Ancora di più sperimenta l’ambientazione virtuale molto diversa da quella ricchissima che conosciamo (Avatar, Beowulf…), un luogo a costo zero che contiene dentro di sé tanti luoghi diversi. Mentre ogni ragazzo sta in una stanza reale e questo diventa importante al momento della morte, tutto è unito in uno schermo-metafora (la “scrivania” del computer) capace di affiancare tutto, reale e virtuale o virtuale e virtuale, capace di moltiplicare l’immagine diversamente da qualsiasi splitscreen, con molte più potenzialità espressive (c’è uno dei personaggi a gestire le finestre a scegliere cosa aprire e cosa bloccare).

In maniera non diversa dal found footage movie che simula il fatto che uno dei personaggi è colui che gira la storia che guardiamo quindi vediamo tutto attraverso il suo sguardo, lo screencasting simula che sia un personaggio a gestire tempi e racconto.

Continua a leggere su BadTaste