Undine, la recensione | Berlinale 2020
A partire da un mito classico Undine cerca di trovare sprazzi di romanticismo nel mondo moderno senza successo
UNDINE, LA RECENSIONE
Undine vuole raccontare una storia d’amore e vuole farlo passando attraverso il mito delle Ondine (più o meno sirene della mitologia nordeuropea e germanica), concretizzandolo con una grande attenzione ai lavori dei due protagonisti. Lei, Undine, una storica urbanista che spiega ai turisti città e palazzi davanti ad un plastico, lui un palombaro. La storia inizia con la fine di un amore per Undine, una fine burrascosa e terribile da cui fatica a riprendersi, e poi prende il suo abbrivio con l’incontro e la nascita di uno nuovo. In mezzo le difficoltà, le malattie, la distanza, il lavoro e tantissima passione.
Sarà solo il titolo a far pensare a loro due come reincarnazioni moderne di miti antichi, destinati ad unirsi e soffrire, con l’acqua di mezzo. In questo senso l’unica scena che appare sensata del film è quella in cui il loro amore è sancito dalla rottura di un acquario che li investe d’acqua.
Non mancherà nel finale una spruzzata di fantastico nella realtà, a ribadire l’origine e l’impronta mitica di questo amore ma senza (di nuovo) dare una profondità diversa alla storia, solo aggiungendo un ulteriore strato insipido ad una torta che continua a non sapere di niente.
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