Underworld: Blood Wars, la recensione

La poetica di notte, pistole, sangue e ibridazioni non raggiunge la sua vetta in Underworld: Blood Wars ma la saga è ormai superiore ai singoli episodi

Critico e giornalista cinematografico


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La trama della saga di Underworld sarebbe difficile da seguire se fosse una serie tv da un episodio a settimana, come franchise cinematografico arrivato al quinto film in 14 anni è impossibile, anche con tutti gli aiuti e i riassunti all’inizio di ogni nuovo capitolo.

Nato come un universo fantasy/metallaro, in cui lupi mannari e vampiri si combattono da millenni, evoluto in qualcosa di più complesso come una lotta tra diversi casati in un futuro in cui sia i primi che i secondi sanno di essere non creature naturali ma frutto di mutazioni genetiche a partire da un virus, ora tutto sembra centrato sul sangue, come dice il didascalico titolo. Il sangue dei casati, degli anziani e dei rapporti madre figlio, il sangue dei vampiri che non è solo fonte di vita ma in questa saga anche portatore di memorie e infine il sangue come oggetto del contendere. Tutti vogliono il sangue di qualcuno per i propri esperimenti. E alla fine, anche stavolta, il racconto non si esaurisce con questo film.

Film come quelli della serie Underworld puntano tutto sul loro look, sulla fotografia che sembra un perenne effetto notte

Il graal della serie Underworld è infatti la creazione della specie perfetta, ibrida tra vampiri e lupi mannari, dotata dei poteri di entrambi e anche di più. Al centro di tutto sempre lei, Kate Beckinsale, immortale corpo inguainato a 43 anni come a 29, madre, guerriera, ribelle e ora leader. Lineamenti spigolosi e occhi piccoli perfettamente a suo agio nell’universo a metà tra gotico e videoclip dei Nine Inch Nails, plausibile anche nei momenti più assurdi. La sua dedizione alla saga ha come paragone solo quella (più impressionante) di Milla Jovovich a Resident Evil, per quanto non sia in grado di profondere la medesima energia cinetica, il medesimo senso del movimento e dello sforzo. La sua è una recitazione di volto e corpo più che di movenze (sempre un po’ goffe) ma tanto basta. Se c’è un fisico e un’espressione che hanno senso nei panni di un vampiro mutato, con poteri superiori agli altri e ibridato con un lupo mannaro, tutto stretto in una tuta di latex nero lucido mentre brandisce due pistole è il suo.

Selene è un personaggio complicatissimo, di poche parole ma tantissime svolte, qui ancora una volta subirà una mutazione e finalmente godrà della prima grande battuta in 14 anni di saga, una sentenza sussurrata in voce fuoricampo, così potente (considerato anche il percorso del personaggio) da suonare solenne come i proclami di Conan Il Barbaro:

Ho vissuto mille anni e potrei vivere per altri mille, oppure morire domani. Ma non ho più paura della morte perché già l’ho conosciuta. Sono rinata, i miei occhi sono stati aperti al mondo sacro e la promessa di quel che deve ancora essere. Non c’è inizio, non c’è fine, c’è solo il divenire.

Un manifesto della celebrazione del cambiamento, dell’evoluzione e della distruzione della tradizione che la saga propugna sotto una tonnellata di proiettili sparati, spade sguianate, colonne vertebrali staccate e capriole volanti impossibili.

Film come quelli della serie Underworld puntano tutto sul loro look, sulla fotografia che sembra un perenne effetto notte, sulla mancanza di luce, il pallore, i cappottoni, l’arredamento kitsch tra pietre da castello britannico e mobilio da settecento francese. È un miscuglio spesso dissonante ma fortemente caratterizzante nel quale è complicato per gli attori inserirsi senza stonare. Non ci riesce mai Theo James, mentre un veterano dei ruoli potenti e austeri come Charles Dance sembra nato lì dentro. Non è da tutti. Ma in quei (a dire il vero rari) momenti in cui Underworld centra tutto, è uno dei racconti di pace attraverso la mescolanza e l’ibridazione contemporaneamente più popolari, confusi e diretti che ci siano.

Può non piacere, specie quest’ultimo film così pacchiano nelle molte scene d’azione e così farraginoso nel racconto, ma si è guadagnato un indubbio rispetto.

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