Under the Dome: la recensione del pilot

Un pilot soddisfacente, che presenta con chiarezza i vari protagonisti e che mette molta, forse troppa, carne sul fuoco

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Da un microcosmo ad un altro, da una gabbia naturale ad una artificiale, da Lost ad Under the Dome i nomi del produttore esecutivo Jack Bender e dello sceneggiatore Brian K. Vaughan si innalzano, insieme a quello di Spielberg, nel team creativo alla base dell'attesa trasposizione del romanzo di Stephen King. Il risultato è quello di un pilot soddisfacente, che non eccelle in niente ma nemmeno delude, che fa il suo dovere nel ripartire il minutaggio tra i vari protagonisti della storia, che posiziona in maniera chiara sulla scacchiera tutti i suoi pezzi delineandone pregi e difetti.

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L'immagine dell'uomo intrappolato, schiacciato da pareti, invisibili o meno, tormentato da barriere che, oltre a spezzare i contatti con  l'esterno, interrompono anche il normale svolgersi della vita sociale corre per tutto il Novecento. Dalle gigantesche cupole in cui veniva sprofondata l'umanità negli Abissi d'acciaio di Asimov, alla forza misteriosa che per alcune ore isolava gli abitanti del Villaggio dei Dannati, al citatissimo lungometraggio dei Simpson al quale tuttavia King non si sarebbe ispirato avendo ideato The Dome negli anni '70 (per chi ha buona memoria addirittura esiste una storia Disney degli anni '60 con la medesima trama, certo raccontata con ben altri toni), isolare gruppi di individui in base alle motivazioni più disparate è stato da sempre uno degli espedienti migliori per estremizzarne i comportamenti e farne emergere i caratteri più veri, quelli che prendono il posto delle maschere quotidiane in condizioni in cui le convenzioni sociali crollano.

E da questo punto di vista si può dire che la situazione surreale che investe la cittadina di Chester's Mill si inserisce in una situazione di relativa normalità e quotidianità. Dal capo della polizia Howard Perkins (Jeff Fahey, Lost) alla sua vice Linda Esquivel (Natalie Martinez) ai due DJ Phil e Dodee al politico James Rennie (Dean Norris, Breaking Bad) vengono quindi delineate le figure chiave della città. Figure tutto sommato semplici, non troppo caricate, abbastanza credibili. E torna alla mente il mediocre Bates Motel, che al contrario di Under the Dome commetteva l'errore di gettare l'evento scatenante (l'arrivo di Norman e sua madre in città) in un contesto già completamente corrotto, annullando così ogni effetto straniante, la costruzione di un "prima" e un "dopo" da mettere a confronto.

E non è un caso che tutti i momenti più deboli del pilot vengano ricondotti al tentativo di caricare l'episodio di tensioni che risultano quasi estranee ed eccessive rispetto alla forza dell'elemento principale. Come se una misteriosa cupola trasparente, la cui origine in questo momento potrebbe essere ricondotta a qualunque cosa, e le reazioni immediate di questa sulla popolazione non fossero un perno sufficiente sul quale costruire, almeno per il momento, la tensione, lo show si lascia andare ad alcune esplicite frecciate allo spettatore, a segreti sussurrati da personaggi, cadaveri sepolti, promesse di rivelazioni e collegamenti futuri, addirittura ad un rapimento. Altra parentesi meriterebbe una scena splatter praticamente instant cult (in senso negativo) che mostra gli effetti della cupola.

Da Lost ad Under the Dome, passando per l'ispirazione del Re del terrore e, speriamo, con la consapevolezza ormai raggiunta dell'esigenza di fornire agli spettatori non tanto delle domande alle quali necessariamente dare una risposta, ma soprattutto dei personaggi veri e che valga la pena seguire nel loro percorso alla ricerca di una soluzione.

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