Uncle Frank, la recensione
Il film si dispiega impercettibilmente vero un traguardo finale, ovvero un traguardo emotivo, con una leggerezza e una semplicità piacevolmente ingannevoli. C’è sì il sospetto che qualcosa prima o poi si riveli, ma Ball come un illusionista tiene sempre il dramma sottotono, per poi rivelarlo in tutta la sua potenza esistenzialista negli ultimi attimi
Uncle Frank è la storia di un uomo, Frank (Paul Bettany), che da sempre tiene nascosto alla sua famiglia di essere gay. Anche per questo si è trasferito a New York, ma nonostante un ambiente più accogliente e un fidanzato amorevole, Frank non ha mai fatto i conti con il suo passato e nemmeno con sé stesso. Grazie alla speciale amicizia con sua nipote Beth (Sophie Lillis) e al suo compagno Wally (Peter Macdissi), in occasione del funerale di suo padre Frank compie un viaggio a ritroso nei suoi personali luoghi del dolore, dove avrà la possibilità di affrontare fantasmi e paure.
Con una regia ferma e delicata che accompagna i personaggi senza mai rivelarsi, Ball diventa un imperscrutabile occhio indagatore, sempre al servizio dei tempi degli interpreti (Paul Bettany qui splende in modo particolare, non solo in quanto protagonista), dei loro respiri, dei loro momenti di contemplazione e di rabbia, senza mai farsi voyeurismo edulcorato. Un’impresa piuttosto difficile visto il tema caldo portato al cinema ormai da diversi autori che, con risultati spesso meno soddisfacenti, sono riusciti il più delle volte in ritratti macchiettistici.
Se allora vogliamo rimproverare qualcosa a Ball, è di aver tenuto tutto il bello per la fine, lasciandoci con la voglia di vederne ancora di più; o, allo stesso modo, con il rimorso di non aver visto la stessa potenza drammatica che riserba a Frank nel resto dei personaggi – soprattutto in Beth, che di Frank è in fin dei conti la vera salvezza.