Uncle Frank, la recensione

Il film si dispiega impercettibilmente vero un traguardo finale, ovvero un traguardo emotivo, con una leggerezza e una semplicità piacevolmente ingannevoli. C’è sì il sospetto che qualcosa prima o poi si riveli, ma Ball come un illusionista tiene sempre il dramma sottotono, per poi rivelarlo in tutta la sua potenza esistenzialista negli ultimi attimi

Condividi
Non ci si poteva aspettare che pura poesia dallo sceneggiatore Alan Ball, in Uncle Frank anche regista: perché proprio dalla penna di Ball, e da alcuni suoi ricordi personali, nacque quel capolavoro indimenticabile di American Beauty, film cult del 1999 diretto da Sam Mendes. In Uncle Frank ritroviamo una simile poesia, forse in modo meno plateale, ma altrettanto profondo. Ed è proprio intorno allo stesso concetto della “possibilità di essere se stessi” che ruota anche Uncle Frank, un dramma ambientato tra New York e un paesino della South Carolina sull’accettazione di se stessi, sul prende il mondo per quello che è, per poi scoprire che, in fondo, non era poi così brutto come si pensava.

Uncle Frank è la storia di un uomo, Frank (Paul Bettany), che da sempre tiene nascosto alla sua famiglia di essere gay. Anche per questo si è trasferito a New York, ma nonostante un ambiente più accogliente e un fidanzato amorevole, Frank non ha mai fatto i conti con il suo passato e nemmeno con sé stesso. Grazie alla speciale amicizia con sua nipote Beth (Sophie Lillis) e al suo compagno Wally (Peter Macdissi), in occasione del funerale di suo padre Frank compie un viaggio a ritroso nei suoi personali luoghi del dolore, dove avrà la possibilità di affrontare fantasmi e paure.

Il film si dispiega impercettibilmente verso un traguardo finale, ovvero un traguardo emotivo, con una leggerezza e una semplicità piacevolmente ingannevoli. C’è sì il sospetto che qualcosa prima o poi si riveli, che prima o poi l’innesco drammatico esploda, ma Ball come un illusionista tiene sempre il dramma sottotono, per poi rivelarlo in tutta la sua potenza esistenzialista negli ultimi attimi. Non un fulmine a ciel sereno, ma una tempesta perfetta: solo che noi spettatori, per tutto il tempo, siamo stati abituati a guardare da un’altra parte, per poi essere meravigliati della sua bellezza distruttrice, tanto violenta quanto meravigliosa nel suo essere, semplicemente, la natura.

Con una regia ferma e delicata che accompagna i personaggi senza mai rivelarsi, Ball diventa un imperscrutabile occhio indagatore, sempre al servizio dei tempi degli interpreti (Paul Bettany qui splende in modo particolare, non solo in quanto protagonista), dei loro respiri, dei loro momenti di contemplazione e di rabbia, senza mai farsi voyeurismo edulcorato. Un’impresa piuttosto difficile visto il tema caldo portato al cinema ormai da diversi autori che, con risultati spesso meno soddisfacenti, sono riusciti il più delle volte in ritratti macchiettistici.

L’intelligenza di Ball è allora quella di non focalizzare il dramma soltanto sull’aspetto sociale di determinazione dell’identità di genere, ma di accompagnarla all’idea di un’opprimente identità familiare – racchiusa nelle parole figlio, fratello… o zio – e soprattutto all’idea che, a sottendere tutto, c’è un’universale quanto banale condizione esistenziale. Una condizione, spesso dolorosa, che non ha alcun tipo di barriere: se non quelle delle parole.

Se allora vogliamo rimproverare qualcosa a Ball, è di aver tenuto tutto il bello per la fine, lasciandoci con la voglia di vederne ancora di più; o, allo stesso modo, con il rimorso di non aver visto la stessa potenza drammatica che riserba a Frank nel resto dei personaggi – soprattutto in Beth, che di Frank è in fin dei conti la vera salvezza.

Continua a leggere su BadTaste