Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives - La recensione

Un uomo, ormai vicino alla morte, si trova a contatto con strane creature e spiriti di familiari. La pellicola vincitrice della Palma d'oro sembra lo stereotipo del peggior cinema d'autore: storia inesistente e immagini mediocri per un prodotto insopportabile...

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Recensione a cura di ColinMckenzie

Titolo Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives
RegiaApichatpong WeerasethakulCast
Sakda Kaewbuadee, Jenjira Pongpas
uscitaAutunno 2010
 

Ci sono pellicole che riescono a catturare la nostra immaginazione e a tenerci attaccati alla sedia. Grazie all'abilità dei realizzatori nel costruire storie avvincenti e personaggi profondi, ci portano a vivere le emozioni presenti in scena e a dimenticarci la realtà circostante per qualche ora.

Ci sono poi film che sono esattamente l'opposto. E uno di questi prodotti è senza dubbio Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives (auguri a chi dovrà tirar fuori il titolo italiano), la pellicola thailandese vincitrice della Palma d'oro. Non si tratta semplicemente di un film brutto, ma di una pellicola dannosa nei confronti dello spettatore e in generale del cinema d'autore. Penso infatti che la visione di questo film non possa che allontanare il pubblico e fargli venire voglia di vedere solo cinema commerciale, perdendo ogni interesse verso tanti titoli fondamentali e bellissimi a basso budget.

A voler essere buonissimi, si potrebbe trovare una bellezza in certe immagini (ma sono casi isolati, tipo il letto all'alba con le tende e dei personaggi davanti a una cascata). Ma anche le riviste di arredi hanno foto bellissime, non per questo le consideriamo cinema (e certamente non vincono il massimo premio al Festival di Cannes). Peraltro qui, a parte questi sporadici momenti, anche visivamente c'è poco da stare allegri. D'accordo un discreto senso dell'inquadratura, ma tra camera eternamente fissa e tante scene praticamente al buio, non siamo neanche di fronte al 'classico' film asiatico 'palloso', ma tecnicamente superbo.

Inutile dire che la storia è una noia tremenda (sempre che si riesca a capire quale sia la storia, ma qui la nostra critica può andare a nozze, inventandosi qualsiasi cosa e facendola franca). Non abbiamo una pellicola affascinante alla Lynch, che anche quando è totalmente incomprensibile invita a seguirlo nei suoi viaggi folli. No, qui non c'è il minimo interesse né da parte di chi deve vedere il film, né per quanto riguarda quelli che devono farlo, in primis gli attori. In effetti, raramente mi era capitato di trovare delle interpretazioni più stranianti/estraniate, in cui sembra che tutti gli interpreti stiano leggendo l'elenco del telefono (che spesso avrebbe più senso delle battute che devono pronunciare)...

Qui siamo all'epitome massima di cinema punitivo che tanto piace ai Festival. Che dire di più di dieci minuti (magari spezzati, ma sempre interminabili sono) visitando una grotta in soggettiva? E almeno una quindicina in mezzo al nulla per dirci due battute sul passato del protagonista? Il risultato è che il pubblico, disperato, ride anche alle battute più pietose, visto che c'è poco altro da fare. A me, più che per una frase, alla fine veniva da sghignazzare per l'estrema stupidità di quanto veniva mostrato in scena, compresi gli ultimi dieci minuti da straculto - trash involontario (perfetti per essere messi alla berlina da Stefano Disegni su Ciak).

A questo punto, i pur tanti errori di Tim Burton nella realizzazione di Alice in Wonderland si sciolgono come neve al sole, di fronte all'idea 'geniale' di premiare questa 'roba' con la Palma d'oro. Per quanto riguarda il 'maestro' Apichatpong, mi piace pensare che si riunisca con gli amici a vedersi American Pie e Una notte da leoni, ridendosela alle spalle dei pazzi occidentali che lo idolatrano. Io intanto, per depurarmi da queste due ore della mia vita perse, magari mi rivedrò tutta la filmografia (compreso Transformers 2) di Michael Bay, Rispetto ad Apichatpong, il più grande regista della storia del cinema...

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