Unbroken, la recensione
Angelina Jolie mette in primo piano il suo schierarsi, esalta le vittime e condanna i carnefici ma così facendo Unbroken scade nella noia più pura
Tuttavia se già In the land of blood and honey aveva fatto intuire quanto nel desiderio di fare cinema di Angelina Jolie ci sia più l'idea di veicolare idee o ancor peggio "messaggi" che quella di realizzare una narrazione per immagini, Unbroken lo conferma. Lungo tutto il film è più pressante l'urgenza di pronunciarsi contro qualcosa e a favore di qualcos'altro che quella di usare una storia per mettere in immagini il proprio mondo, figuriamoci avere un atteggiamento ambiguo o anche solo non coinvolto.
Dopo una sequenza di disastro aereo di ottima fattura, ben resa, piena di idee e dotata anche dello sguardo giusto, cioè di un misto di realismo ed epica (unire l'emozione forte del disastro e del progressivo avvicinarsi di un momento fatale con le falsità retoriche del cinema narrativo e le esigenze di spettacolarizzazione) inizia però il disastro del film. Prima l'agonia in mezzo al mare e poi il sadismo a senso unico delle torture nipponiche, in un continuo infliggere allo spettatore scene madri. Addirittura anche lo scialbissimo e ruffiano Le due vie del destino era stato in grado di trattare meglio il medesimo tema.
A furia di asciugare lo stile per mettere in evidenza le interpretazioni e in secondo piano la regia, Angelina Jolie sembra aver perso la via per il cinema migliore, quello che nel raccontare qualcosa in realtà parla di tutt'altro. Unbroken invece è esattamente il racconto di una prigionia e l'esaltazione dello spirito indomito di quei prigionieri, senza una profondità di sguardo che lasci intravedere altro nè con la capacità, semplice e secca dei registi classici hollywoodiani, di raccontare con fluidità.
Buono per chi condivida la medesima visione della regista, noia incomprensibile per gli altri.