Unbroken, la recensione

Angelina Jolie mette in primo piano il suo schierarsi, esalta le vittime e condanna i carnefici ma così facendo Unbroken scade nella noia più pura

Critico e giornalista cinematografico


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Sulla carta era uno dei progetti meno convenzionali della stagione: Angelina Jolie che affronta di petto il film di guerra all'americana (dopo averlo fatto di rinterzo con un film di guerra dal sapore più europeo come In the land of blood and honey), grazie ad una sceneggiatura dei fratelli Coen, tratta da una clamorosa storia vera, a sua volta narrata in un libro. C'erano insomma tutti i possibili materassi su cui cadere e anche più di un aiutino per rimanere in piedi (vale la pena ripeterlo: la sceneggiatura è dei fratelli Coen), proprio per questo il tonfo è più sonoro che mai.

Tuttavia se già In the land of blood and honey aveva fatto intuire quanto nel desiderio di fare cinema di Angelina Jolie ci sia più l'idea di veicolare idee o ancor peggio "messaggi" che quella di realizzare una narrazione per immagini, Unbroken lo conferma. Lungo tutto il film è più pressante l'urgenza di pronunciarsi contro qualcosa e a favore di qualcos'altro che quella di usare una storia per mettere in immagini il proprio mondo, figuriamoci avere un atteggiamento ambiguo o anche solo non coinvolto.

La trama è quella del disastro aereo, della disperata deriva in mezzo all'oceano e poi della prigionia in un campo giapponese di un gruppo di soldati americani durante la seconda guerra mondiale. Tra di loro anche un atleta olimpionico.

Dopo una sequenza di disastro aereo di ottima fattura, ben resa, piena di idee e dotata anche dello sguardo giusto, cioè di un misto di realismo ed epica (unire l'emozione forte del disastro e del progressivo avvicinarsi di un momento fatale con le falsità retoriche del cinema narrativo e le esigenze di spettacolarizzazione) inizia però il disastro del film. Prima l'agonia in mezzo al mare e poi il sadismo a senso unico delle torture nipponiche, in un continuo infliggere allo spettatore scene madri. Addirittura anche lo scialbissimo e ruffiano Le due vie del destino era stato in grado di trattare meglio il medesimo tema.

Il problema di questa lunghissima parabola da 2 ore e 20 è proprio che affronta un genere estremamente codificato, narrando eventi abbastanza trattati dal cinema, senza avere mai una visione originale o personale. Nella storia mai raccontata prima di Louis Zamperini sembra di rivedere ogni altro film sul genere "campo di prigionia" ma privati di quel che li rendeva originali e senza la volontà di complessità che il cinema di guerra contemporaneo richiede.

A furia di asciugare lo stile per mettere in evidenza le interpretazioni e in secondo piano la regia, Angelina Jolie sembra aver perso la via per il cinema migliore, quello che nel raccontare qualcosa in realtà parla di tutt'altro. Unbroken invece è esattamente il racconto di una prigionia e l'esaltazione dello spirito indomito di quei prigionieri, senza una profondità di sguardo che lasci intravedere altro nè con la capacità, semplice e secca dei registi classici hollywoodiani, di raccontare con fluidità.

Buono per chi condivida la medesima visione della regista, noia incomprensibile per gli altri.

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