Unbreakable Kimmy Schmidt (terza stagione): la recensione

La terza stagione di Unbreakable Kimmy Schmidt arriva su Netflix: la serie di Tina Fey si conferma divertente e piacevole

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Le comedy di oggi sono cattive, quasi perfide. Soprattutto quelle via cavo o piattaforme streaming, ormai praticamente scomparse nella loro accezione classica, esistenti solo come forme ibride. Dark-comedy, dramedy e similari, storie ciniche per tempi cinici. Unbreakable Kimmy Schmidt è diversa, ed è un bene che lo sia anche per mantenere una certa varietà di fondo. La cosa strana allora è che, in mezzo a tante storie che partono da una base che potrebbe essere positiva e invece rivela spunti anche drammatici o che vogliono parlare di altro (Love e Master of None, tanto per restare su Netflix), Unbreakable Kimmy Schmidt fa esattamente l'opposto. Muove da una premessa che, a pensarci bene, non potrebbe essere più drammatica, e la usa per raccontare personaggi e situazioni assurde e sopra le righe.

La terza stagione non offre nessun cambiamento di rilievo. Kimmy continua ad essere la persona solare, giocosa con l'animo da bambina (un po' capricciosa alle volte) che desidera trovare il proprio posto nel mondo. Divide ancora l'appartamento con Titus Andromedon, anche lui in cerca di una maggiore stabilità sia sul piano professionale che sentimentale. Intorno a loro due si muovono i soliti personaggi sgangherati e immaturi, come Lillian Kaushtupper, la stramba padrona di casa, e Jackie Voorhees, donna ricca e viziata che sotto sotto nasconde altre origini dietro una maschera di sufficienza.

Tornando al discorso iniziale, con l'aumento della raffinatezza delle produzioni si accompagna una voglia per questi show di essere qualcosa di più di ciò che sono. Incertezze professionali, crisi dei trent'anni, un'adolescenza spostata sempre più in là: qualcosa dovrà esserci, e va benissimo così. La comedy di Tina Fey – che torna ancora in questa stagione – però opta per altre soluzioni. Tutto rimane sopra le righe, molto episodico, sganciato da riflessioni sulla realtà che non siano abbastanza superficiali. Quell'idea di rappresentare il personaggio di Kimmy come il pesce fuor d'acqua che metteva in ridicolo le convenzioni e le assurdità di Manhattan è tramontata col tempo, anche per mancanza di argomenti.

Rimangono le risate, e non sono poche. Anche quando le storyline non sono il massimo, come la carriera politica di Lillian o i tentativi di sabotaggio di Jackie, rimane sempre qualcosa di piacevole per cui sorridere, anche grazie a un cast sempre al massimo. Titus ruba la scena in ogni momento, e continua ad essere il veicolo con cui la serie infrange la quarta parete e si permette di creare quei momenti instant cult che dal Pinot Noir della prima stagione non sono più mancati. A questo giro rimane soprattutto una parodia di Hold Up di Beyoncé, ma c'è parecchio materiale, come la sigla (sempre supercatchy) riadattata in modo molto particolare all'interno della serie.

E poi c'è Kimmy, che riesce a mantenersi in quell'equilibrio tra genuinità e voglia di fare. Qualcosa che non la rende mai stupida ai nostri occhi, un pericolo nel quale era facile cadere, ma le permette di fermarsi un passo prima, rimanendo il personaggio piacevole che è sempre stato. Esilaranti le apparizioni di guest, sulle quali non riveliamo nulla.

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