Unbelievable: la recensione
Il più grande risultato di Unbelievable è quello di raggiungere la brutalità tramite il rigore dell'esposizione
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La miniserie è basata su un report che ricostruisce il caso di uno stupratore seriale che ha operato tra il 2008 e il 2011. La giovane Marie Adler denuncia una violenza sessuale, ma il suo racconto viene messo in dubbio, tanto da convincerla a ritrattare il fatto. Nel suo caso la forte indignazione sociale si trasforma in uno schiocco di dita in un violento rifiuto da parte di conoscenti, amici, datori di lavoro. Quel che emerge nel suo caso è che la colpa della "bugia" suscita reazioni molto più forti rispetto al racconto della violenza. La solidarietà allora è vissuta quasi come un atto dovuto da parte degli altri (in una società in cui a volte la cultura dello stupro è interiorizzata), quando ben più soddisfacente per loro è infierire sulla vittima.
Per certi canali di scrittura, Unbelievable somiglia a Mindhunter. L'attività di profiling dei serial killer ha qualcosa dell'approccio alla cattura dello stupratore seriale. C'è molto dialogo da ufficio, si dibatte su quale filone di indagine seguire, quali agganci sfruttare, come elaborare le informazioni dei database. E in quest'analisi apparentemente così fredda emerge un metodo che soggiace ad una società in cui la violenza sessuale è consuetudine. Così la miniserie ci racconta il proprio universo di riferimento, senza immagini scabrose o scene madri. Come nella prima stagione di True Detective, basta vedere le reazioni di persone che vedono su uno schermo delle immagini di violenze sessuali per suscitare l'orrore.
Nel fare questo, la scrittura attua un processo inverso alla mortificazione della vittima. Le restituisce dignità.