Unbelievable: la recensione

Il più grande risultato di Unbelievable è quello di raggiungere la brutalità tramite il rigore dell'esposizione

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Il più grande risultato di Unbelievable è quello di raggiungere la brutalità tramite il rigore dell'esposizione. Questa serie di Netflix più reale dei docudrama – che invece sempre più corteggiano il sensazionalismo – ci riesce nel migliore dei modi. Nessun pugno allo stomaco dello spettatore, solo una costante sensazione di oppressione alle tempie, che poi si farà strada verso angoli più celati della sensibilità. Sono strade poco battute quando si parla di temi di cronaca nera come lo stupro, ma questa miniserie di Netflix, pura detective story appassionante come un thriller, ha la forza delle proprie convinzioni.

La miniserie è basata su un report che ricostruisce il caso di uno stupratore seriale che ha operato tra il 2008 e il 2011. La giovane Marie Adler denuncia una violenza sessuale, ma il suo racconto viene messo in dubbio, tanto da convincerla a ritrattare il fatto. Nel suo caso la forte indignazione sociale si trasforma in uno schiocco di dita in un violento rifiuto da parte di conoscenti, amici, datori di lavoro. Quel che emerge nel suo caso è che la colpa della "bugia" suscita reazioni molto più forti rispetto al racconto della violenza. La solidarietà allora è vissuta quasi come un atto dovuto da parte degli altri (in una società in cui a volte la cultura dello stupro è interiorizzata), quando ben più soddisfacente per loro è infierire sulla vittima.

A questa storyline si affianca quella investigativa. Le detective Grace Rasmussen (Toni Collette) e Karen Duvall (Merritt Weaver) operano in due contee diverse, ma notano degli elementi in comune tra più casi di stupro, e collaborano per trovare il colpevole. Nel loro caso la serie elabora le differenze di carattere, ma non gioca, come spesso avviene, su una netta contrapposizione tra le due. Nell'indole più solitaria di Grace e in quella più compassata di Karen emergono le sfumature più naturali e meno appariscenti, che le avvicinano. Entrambe determinate, entrambe attente ad applicare la metodologia di lavoro con intelligenza.

Per certi canali di scrittura, Unbelievable somiglia a Mindhunter. L'attività di profiling dei serial killer ha qualcosa dell'approccio alla cattura dello stupratore seriale. C'è molto dialogo da ufficio, si dibatte su quale filone di indagine seguire, quali agganci sfruttare, come elaborare le informazioni dei database. E in quest'analisi apparentemente così fredda emerge un metodo che soggiace ad una società in cui la violenza sessuale è consuetudine. Così la miniserie ci racconta il proprio universo di riferimento, senza immagini scabrose o scene madri. Come nella prima stagione di True Detective, basta vedere le reazioni di persone che vedono su uno schermo delle immagini di violenze sessuali per suscitare l'orrore.

Sostenuta da una scrittura appassionante e da ottime interpretazioni – su tutte Kaitlyn Dever – la serie sostiene lo sguardo dello spettatore. Lo sfida su terreni sui quali è impreparato. Ad una narrazione spesso appiattita su reazioni attese, lo show oppone invece la ricchezza delle risposte emotive. Qui vedremo molte vittime di violenza sessuale e, sofferenza e paura a parte, sono le loro specificità individuali a colpire, il fatto che ognuna di esse abbia una reazione personale, umana, alla vicenda. Sono storie diverse che la scrittura è attenta a raccontare nelle proprie individualità: nessuna donna qui è l'ennesima vittima utile a mandare avanti l'indagine, dietro ogni scena emerge una vita e un complesso di esperienze che non ci vengono raccontate, ma che sono chiaramente intuibili.

Nel fare questo, la scrittura attua un processo inverso alla mortificazione della vittima. Le restituisce dignità.

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