Una vita in fuga - Flag Day, la recensione | Cannes 74

L'America, la famiglia, i sogni e le speranze ma anche troppi videoclipponi e un calo di ritmo imperdonabile condannano Flag Day

Critico e giornalista cinematografico


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Flag Day, la recensione | Cannes74

I grandi sentimenti esposti con scene clamorose al tramonto, perché tutti li possano vedere, i pianti sommessi e non, e le confessioni insperate mormorate sul portico di notte. In Flag Day c’è tutto il campionario delle scene madri utili a mettere in luce la recitazione e raccontare una storia più tramite gli attori che tramite la sceneggiatura o qualsiasi altro elemento della messa in scena. Sean Penn, che era stato così bravo a lavorare di paesaggi e luoghi sia in La promessa che (ovviamente) in Into The Wild, di nuovo crolla, stavolta con una storia molto semplice, molto lineare e molto americana.

È la vera storia di Patty Vogel come raccontata da lei stessa nella sua autobiografia, ma in realtà Flag Day sembra molto più interessato a John Vogel. Del rapporto padre/figlia al centro della storia il cuore non sembra mai essere questa figlia che, cresciuta con un padre inaffidabile e in fuga, lo raggiunge da adolescente per toccarne con mano l’inaffidabilità e cerca di stabilizzare le loro vite senza successo, ma semmai il padre, cioè il ruolo interpretato da Sean Penn stesso. Bugiardo compulsivo, truffatore dei suoi stessi cari, padre amorevole ma incapace di fornire stabilità, tenere un lavoro e rassegnarsi a non essere chissà che imprenditore, John Vogel è il sole di una trama classica, una storia americana di qualcuno (la figlia) che riesce a conquistare il suo sogno nonostante tutte le difficoltà. Una storia sul paese in cui se non sei nessuno soffri (come il padre) ma anche quello in cui se ti impegni davvero puoi riuscire in tutto (la figlia).

Tuttavia è sempre il padre il personaggio che il film si impegna a farci conoscere, è lui quello con l’arco narrativo interessante, quello che vuole cambiare, nonché quello al centro del climax finale. Insomma nonostante potrebbe sembrare il contrario è lui il vero protagonista. Dylan Penn (figlia di Sean e Robin Wright) è marginale.
E se su questo si potrebbe anche passare sopra, più difficile è farlo sul fortissimo desiderio di Flag Day di essere un film come altri e la maniera vanitosa di arrivarci. Difficile sopportare il ricorso frequente a videoclipponi con musica, tramonti, scenari e personaggi che danzano al suono della propria musica interiore (sono i momenti da cui dovremmo capire i sentimenti di ognuno), oppure sopra a Dylan Penn (30 anni) scarsamente credibile come adolescente e più che altro mascherata da cosplayer di un’adolescente. Senza contare infine che da quando il film entra nel suo terzo atto rallenta clamorosamente, affidandosi di continuo a dissolvenze e attese sfiancanti.

Non siamo certo dalle parti dell’allucinante Il tuo ultimo sguardo, ma Flag Day lo stesso è un film spento, uno che, una volta tanto, una storia interessante da raccontare l’aveva ma che non è capace di vedere in essa ciò che avrebbe potuto renderla grande.

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