Una storia nera, la recensione

Ha ottime intenzioni Una storia nera ma nonostante momenti di buon cinema, rimane schiacciato da una missione che non si trasforma in film

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Una storia nera, il film di Leonardo D'agostini con Laetitia Casta, in sala dal 16 maggio

Dentro a un nucleo familiare in cui la violenza sulla madre è stata per anni all’ordine del giorno, avviene un omicidio. I figli sono ormai grandi (tranne una, ancora piccola), e da quando sono bambini hanno visto avvenire la violenza, così quando il padre viene ucciso e la madre confessa di essere la colpevole, sembra scontata la loro posizione. Ma non è così. Quello che vediamo è il processo e ciò che accade intorno ad esso, cioè la vita dei figli, lo schierarsi delle persone, il procedere delle indagini e la maniera in cui lo stato e la società scandagliano l’omicidio di una persona che picchiava la moglie.

Non ci sono dubbi sul fatto che questa di Una storia nera sia il tipo di trama, di evento e di storia da raccontare oggi. Non che il cinema non lo abbia mai fatto, ma il film di Leonardo D’agostini ha il punto di vista giusto e nel finale un’ambiguità apprezzabile, una di quelle che non vogliono lasciare il pubblico con il sospetto che forse la protagonista non sia quello che crediamo, ma semmai lasciarlo con la certezza che le cose non sono mai nette, e il fatto che questa vicenda abbia un chiaro carnefice e una chiara vittima (con tutte le colpe da una parte sola, come forse accade solo al cinema) è vero anche se la vittima non è un personaggio idealizzato.

Il fallimento di Una storia nera semmai è di non essere riuscito a fare di questa storia e di queste intenzioni un film che le superi. Tutto è schiacciato dalla missione, piegato sull’essere film d’impegno civile, azzerato nelle interpretazioni di fronte all’esigenza di veicolare messaggi, punti di vista giusti e farsi esponente di una causa da condividere. Tarato su un tono sussurrato che rende spesso difficile capire tutte le parole, fermo su interpretazioni torve e volti duri, determinatissimo a far uscire da ogni interazione la sua idea principale (anche quando vittima è sempre la donna il soggetto il cui status e la cui morale vengono discussi), dimenticando di raccontare una storia che lasci uno spazio per gli spettatori, invece che ingabbiarli e costringerli a pensare quel che il film dice loro.

Leonardo D’Agostini riesce anche a mettere in scena bene le parti di processo (e non è facile dopo Anatomia di una caduta e Saint Omer), tese senza bisogno di qualcosa da scoprire ma solo per la maniera in cui è ritmata e raccontata la sequenza degli eventi, con una voce dimessa ma ferma. Lì Laetitia Casta fa un gran lavoro di minimalismo, quello che nel resto del film manca e anzi diventa massimalismo, quando cioè invece di fare molto con poco (limitare l’espressionismo e trovare lo stesso le intenzioni giuste) si fa pochissimo con un continuo e ossessivo riproporre il medesimo tono torvo. E mentre Licia Maglietta è libera di avere un personaggio più vitale, rimangono intrappolati in questa messa in scena Andrea Carpenzano, Cristiana Dell’Anna e Giordano De Plano, monodimensionali, a senso unico e mai plausibili.

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