Una stanza tutta per sé, la recensione

Una stanza tutta per sé è un interessante spaccato su cosa possa voler dire essere adolescente in Israele, la particolarità di quei conflitti, l’influenza di grandi temi come la Shoah nel vivere quotidiano.

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La recensione di Una stanza tutta per sé, al cinema dal 17 agosto

In Israele, dove la leva militare è obbligatoria per tutti, quando stai per finire le superiori vai a fare un colloquio che deciderà la tua mansione nell’esercito. È in questo colloquio che il diciasettenne Uri (Gilad Lederman) dice la verità sulla sua vita, contenendo tutto il conflitto che Una stanza tutta per sé racconta sul protagonista: da quando il padre se n’è andato di casa dorme nello stesso letto di sua madre. Si tratta di una dipendenza affettiva gigantesca, contro la quale Uri sente di dover combattere per diventare adulto.

Una stanza tutta per sé è un coming of age dal tono volutamente dimesso: il regista Matan Yair ricerca la liberazione emotiva di questo adolescente attraverso un’evoluzione psicologica quasi impercettibile, ma se da una parte riesce a ritrarre in modo estremamente enigmatico e particolare il carattere di Uri, dall’altra pone una risoluzione piuttosto blanda e inespressiva rispetto alle ottime premesse e a ciò che questo personaggio avrebbe potuto darci.

Il film infatti gioca continuamente con la tensione su ciò che Uri potrebbe fare, o che ci sembra stia per fare. Il modo in cui recita Gilad Lederman è in questo senso un elemento chiave, il suo sguardo nervoso sembra contenere un mondo di dolore represso e l'irrequietezza del suo personaggio è veramente il tirante narrativo più forte del film. Uri parla spesso dalla Shoah, e per quanto sia un discorso continuo e normale nelle scuole israeliane, Uri se ne esce con diverse battute pungenti come “Purtroppo non ho parenti morti ad Auschwitz. Siamo una famiglia di fannulloni”. Ad aumentare la tensione, il rapporto ambiguo di odio e rispetto col professore che non vuole portarlo in gita in Polonia (a visitare proprio i luoghi della Memoria) e quello con una sorella libertina, di cui controlla ossessivamente i cassetti.

Insomma Una stanza tutta per sé gioca benissimo nel porre basi sui conflitti di Uri, eppure si vota a raccontare la cosa meno interessante del mondo psicologico che ha creato: il rapporto col padre, che viene dipinto come di chissà quale peso narrativo quando in realtà è, apparentemente, il rapporto più aperto e sincero (anche nel dolore) che Uri ha nella sua vita. 

Una stanza tutta per sé è comunque un interessante spaccato su cosa possa voler dire essere adolescente in Israele, la particolarità di quei conflitti, l’influenza di grandi temi come la Shoah nel vivere quotidiano. E per quanto il film non vada mai a fondo su quei temi, è forse proprio il suo essere superficiale (e dare molte cose per scontate) il modo più efficace per raccontare la normalità di quei discorsi in quel contesto.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Una stanza tutta per sé? Scrivetelo nei commenti!

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