Una sirena a Parigi, la recensione
Un repertorio micidiale di ukelele, cappelli fedora, gilet, barbe e colori saturi tempesta Una sirena a Parigi, il più inetto dei film di questa estate
Una sirena a Parigi è la copia della copia della copia della copia di Jean-Pierre Jeunet. Ricicla non le sue idee ma attinge ai suoi epigoni che già le hanno annacquate. È da lì che viene il piccolo mondo condominiale, le figure ordinariamente tristi e sole (ma sempre tenere eh!) che guardano gli altri dietro lo spioncino e battibeccano con una parlantina inarrestabile (possibilmente anche con bigodini), l’idea di un sottobosco francese di individui strani ma pieni di cuore, teneri e rigorosamente asessuati. E ovviamente i colori, sparati, impossibili, sognanti e capaci di creare un altro mondo. A partire da questa base Una sirena a Parigi prende tutto quel che nei momenti migliori di Jeunet riesce ad essere alto, e lo abbassa al livello più infame del sentimentalismo scriteriato. Non è che Malzieu sia troppo smielato, è che non ha la minima idea di come si possa creare il romanticismo al cinema e tutte le volte che tenta di dare poesia al suo film (ahimè troppe), non fa che ribadire la sua idea piccina piccina di narrazione.
Tale è l’amore per l’ostentata anticonvenzionalità, tenera e poetica solo a parole, che tutto il film segue questo binario strambo senza nessuna capacità registica. I piccoli buchi di sceneggiatura e problemi di raccordo tra le scene sono davvero il meno quando ci si trova di fronte ad alcune delle peggiori scelte di casting e di conseguenza alle peggiori interpretazioni del cinema francese. Ma forse anche questo è nulla di fronte alla boria e alla vanità di un film che il suo demiurgo vuole a propria misura, riuscendo solo a farci la capire la dimensione sproporzionata delle proprie ambizioni rispetto a capacità sotto ogni media di concepire un film. Nonostante la confezione sia buona, sono proprio le più elementari norme di storytelling, di cattura e presa del pubblico a mancare.