Una sirena a Parigi, la recensione

Un repertorio micidiale di ukelele, cappelli fedora, gilet, barbe e colori saturi tempesta Una sirena a Parigi, il più inetto dei film di questa estate

Critico e giornalista cinematografico


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Forse stavolta da biasimare non è tanto Mathias Malzieu, cantante, scrittore, musicista e a quanto pare anche regista francese, che con Una sirena a Parigi ha trasposto il suo romanzo omonimo, né la produzione che ha pensato di monetizzare facilmente l’idea (tutta sulla carta e nella sua immagine, di certo non nel film) di un genio polimorfo massimizzando gli incassi e minimizzando la spesa. Forse stavolta da biasimare è il pubblico che sceglie di vedere questo film nonostante tutti gli indizi di inconsistenza. Cosa ci si può aspettare già dal trailer, dal cartellone e da quell’inizio che promette il peggio possibile? Cosa può promettere la sinossi?

Una sirena a Parigi è la copia della copia della copia della copia di Jean-Pierre Jeunet. Ricicla non le sue idee ma attinge ai suoi epigoni che già le hanno annacquate. È da lì che viene il piccolo mondo condominiale, le figure ordinariamente tristi e sole (ma sempre tenere eh!) che guardano gli altri dietro lo spioncino e battibeccano con una parlantina inarrestabile (possibilmente anche con bigodini), l’idea di un sottobosco francese di individui strani ma pieni di cuore, teneri e rigorosamente asessuati. E ovviamente i colori, sparati, impossibili, sognanti e capaci di creare un altro mondo. A partire da questa base Una sirena a Parigi prende tutto quel che nei momenti migliori di Jeunet riesce ad essere alto, e lo abbassa al livello più infame del sentimentalismo scriteriato. Non è che Malzieu sia troppo smielato, è che non ha la minima idea di come si possa creare il romanticismo al cinema e tutte le volte che tenta di dare poesia al suo film (ahimè troppe), non fa che ribadire la sua idea piccina piccina di narrazione.

In questa storia di un uomo che incontra una sirena ferita, l’unico impermeabile al potere ammaliatore del suo canto, che se ne innamora corrisposto e vive con lei i pochi giorni che può stare fuori dal mare scappando da chi la vuole catturare, non c’è nemmeno il più elementare dei “Io e te contro il mondo”, ma più un canto individualista anche nella ricerca dell’amore. Nonostante la proiezione del protagonista verso la sirena e della sirena verso di lui, il film sembra molto più intenzionato a fare la sua misera celebrazione degli individui fuori dai canoni nelle cui vite (ma più che altro nei cui appartamenti) nulla è convenzionale. Sembra cioè molto più intenzionato a mettere in scena (involontariamente) la vanità del mondo interiore di chi scrive e dirige, che una storia vera e propria.

Tale è l’amore per l’ostentata anticonvenzionalità, tenera e poetica solo a parole, che tutto il film segue questo binario strambo senza nessuna capacità registica. I piccoli buchi di sceneggiatura e problemi di raccordo tra le scene sono davvero il meno quando ci si trova di fronte ad alcune delle peggiori scelte di casting e di conseguenza alle peggiori interpretazioni del cinema francese. Ma forse anche questo è nulla di fronte alla boria e alla vanità di un film che il suo demiurgo vuole a propria misura, riuscendo solo a farci la capire la dimensione sproporzionata delle proprie ambizioni rispetto a capacità sotto ogni media di concepire un film. Nonostante la confezione sia buona, sono proprio le più elementari norme di storytelling, di cattura e presa del pubblico a mancare.

Certo, per farla breve basterebbe dire che Una sirena a Parigi è soprattutto un film noioso, soporifero, privo di una vera trama, incapace di attirare nelle singole scene, ma questo non darebbe conto dei molti modi in cui il film pensa di essere niente meno di eccezionale, che è davvero la goccia che fa traboccare il vaso.

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