Una Serie di Sfortunati Eventi (seconda stagione): la recensione
Le nostre impressioni sulla seconda stagione di Una Serie di Sfortunati Eventi, che narra le disavventure degli orfani Baudelaire
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Il mondo di Lemony Snicket, inteso come quello della serie Netflix (solo amore per i romanzi), vive a metà tra la capacità di affascinare lo spettatore e quello di respingerlo completamente. Come nella prima stagione, rimane il mondo dei misteri da risolvere, del lavoro creativo sui set e le ambientazioni, del sottile piacere nel cogliere i riferimenti letterari. Ma è anche il mondo dei personaggi tremendamente respingenti, dei dialoghi molto teatrali, un mondo in cui la morale è chiara fin dal principio e non c'è mai un conflitto umano degno di questo nome. Alti e bassi che variano di puntata in puntata, ma in ogni caso è difficile non apprezzare la trasposizione dei romanzi – sono cinque quest'anno – che narrano le disavventure degli orfani Baudelaire.
Quindi, se dal punto di vista strutturale la serie rimane uguale a se stessa, a variare sono i contenuti e alcune sfumature della trama. E gli scenari differenti giocano in questo un ruolo centrale. Accantonati in larga parte i tutori singoli, con le loro personalità e le loro bizzarre case, i Baudelaire si confrontano più spesso con agglomerati amministrativi e gruppi di persone che fungono a vario titolo da educatori dei giovani. Inevitabilmente, ognuna di queste microcomunità si svela presto per ciò che è, ossia totalmente inaffidabile e incoerente quando si tratta di coniugare educazione, sicurezza, un sistema di regole condiviso. Ne avevamo avuto un accenno già nella prima stagione con la Sinistra Segheria, che simulava la bizzarria di un luogo di lavoro disumanizzante.
Ad esempio, nell'Atroce Accademia avremo a che fare con un istituto scolastico che nelle fattezze ricorda un cimitero. Qui il nozionismo fine a se stesso e la mancanza di merito hanno sostituito la cultura intesa come ricerca, scoperta, continua messa in discussione di sé. L'Ascensore Ansiogeno prende di mira l'elitarismo del mondo dell'arte, ma si tratta del doppio episodio più simile ai primi tre romanzi come impostazione. Molto meglio il Vile Villaggio, il più ispirato e ricco di sfumature tra gli adattamenti. Qui i Baudelaire piombano in una comunità fondata su regole tanto rigide quanto assurde, "un'isola nel deserto" che potrebbe essere uscita da uno dei viaggi di Gulliver, ma che ha anche molto del delirio coerente di Alice nel Paese delle Meraviglie (invece di tagliare la testa, qui le persone vengono messe al rogo).
C'è poi l'Ostile Ospedale, che non vale tanto di per sé come polo sanitario, quanto come colossale archivio di informazioni difficilissime da consultare. È una grande biblioteca del sapere terribile e intoccabile, il santuario in cui sono sepolte le storie occulte, i segreti, i misteri che nessuno deve conoscere. Qui si trova perfino una zuccheriera che ha una fortissima valenza simbolica più che narrativa. È il MacGuffin assoluto, di cui non sappiamo nulla, se non che entrambe le fazioni in lotta la cercano per ciò che contiene. Violet, Klaus e Sunny vagano di notte, in segreto tra questi corridoi, cercando risposte alle loro domande. Ci ricordano senza dubbio Guglielmo da Baskerville del Nome della Rosa, perduto in una biblioteca-labirinto dai segreti indicibili. Il fatto che anche qui tutto si concluda con un grande incendio che divora ogni cosa non sembra una coincidenza.
Chiusura più avventurosa, e ancora una volta molto legata ai misteri del mondo di Lemony Snicket, con il Carosello Carnivoro. L'ambientazione circense, con i suoi freak (quelli che lo sono davvero in quanto amorali, e quelli che così vengono giudicati solo perché diversi dalla maggioranza) fa buon gioco alla storia dei Baudelaire. Abbiamo qualche risposta in più, e veniamo lasciati letteralmente con un cliffhanger. Niente canzone quest'anno, solo una brusca chiusura che ci rimanda ai prossimi episodi, che della serie saranno gli ultimi.
Lo anticipavamo pochi giorni fa: chi è rimasto soddisfatto dalla prima stagione avrà lo stesso parere, chi ha odiato quegli otto episodi dovrebbe tenersi lontano dal proseguimento (lo diciamo senza ironia stavolta). Questa rimane la stessa serie con i personaggi molto molto respingenti e odiosi. Non si tratta di una semplice antipatia contro un malvagio, si tratta di detestare con tutte le nostre forze i cosiddetti "vincenti" di questo mondo. Presuntuosi, arroganti, urlatori, ignoranti, quando non completi imbecilli. Vincenti per modo di dire, perché ognuno di loro è specchio di una pochezza umana assordante. Combattere contro persone di questo genere con le armi della logica e del sapere è una missione per cui ognuno dovrebbe offrirsi "volontario".
La serie ci racconta questi personaggi in una continua messinscena teatrale, in cui le maschere e i travestimenti sono molto importanti, ma in cui ognuno – anche quando è vestito normalmente – sta interpretando un ruolo. Olaf rappresenta qualcosa, e lo stesso Poe, o i molti aiutanti dei Baudelaire così come i loro nemici. Ecco, questa impostazione teatrale emerge moltissimo nei dialoghi e toglie respiro e godimento alla vicenda. Una serie di sfortunati eventi ci sta sempre raccontando qualcosa tra le righe, quando invece a volte vorremmo solo lasciarci andare alla storia. Le stesse interruzioni di Lemony Snicket tolgono ritmo alla storia nei momenti più concitati.
Inoltre c'è un altro discorso da fare. Se la serie funziona per archetipi, rende meno umani i suoi personaggi (non è sempre così ovviamente, ma qui succede) e ci respinge. Nessun personaggio evolve mai o ci lascia intravedere qualcosa sotto la superficie, nessun personaggio attraversa un conflitto forte e così, anche quando perde una persona cara o deve prendere una decisione difficile, il momento ci arriva freddamente. Qualche decisione difficile ricade sui Baudelaire, e devono iniziare loro stessi a travestirsi. Sono momenti che hanno un altissimo valore simbolico, perché li avvicinano a ciò che fa Olaf, ma appunto, sono momenti simbolici, come tutto in questa serie.
Apprezziamo allora i vari innesti di mitologia e personaggi inediti che la serie compie. C'è un bel flashback sull'organizzazione VF, prima dello scisma che ha creato due gruppi, uno che spegne gli incendi e uno che li appicca (incendi anche simbolici, tanto per non cambiare). I retroscena, la famiglia Snicket, gli appunti, i codici, la stessa zuccheriera, tutto questo è ben accetto perché esula, più o meno, dal valore allegorico della storia e ne arricchisce l'intreccio. Narrazione postmoderna per bambini di tutte le età – perché rielabora tutto in chiave metanarrativa – Una serie di sfortunati eventi mantiene un forte approccio visivo alla storia, questo sì da promuovere in toto.
Il lavoro su scenografie e setting è ispirato e ricco tanto nei dettagli quanto negli scenari. Lavora su colori saturi, tipicamente freddi, con la parziale eccezione degli scenari del Vile Villaggio. A questo oppone una composizione dell'immagine schematica e rigida, che gioca per contrasto con le bizzarrie dei contenuti. Qualcosa che potrebbe ricordare a molti Wes Anderson, ma che ci pare più simile al cinema di Jean-Pierre Jeunet. Quanto al cast, Neil Patrick Harris è un'esplosione di energia, senza di lui la serie perderebbe molto, ma quest'anno abbiamo apprezzato molto anche Nathan Fillion e Sara Rue.
Elencati pregi e difetti, Una serie di sfortunati eventi non è il migliore degli adattamenti possibili (chissà come sarebbe stata una serie animata), ma rimane comunque un progetto in larga parte da promuovere. Appuntamento al prossimo anno – immaginiamo un'uscita della terza stagione nel 2019 – con la fine di questa sfortunatissima storia.