Una piccola impresa meridionale, la recensione

Dopo un esordio alla regia senza pretese e riuscito nel suo piccolo, Papaleo alza il tiro senza però avere la capacità di raccontare le complessità che mette in scena...

Critico e giornalista cinematografico


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  Che fallimento!

Lo diceva Morando Morandini che il peggior cinema è quello che incrocia le ambizioni più alte con la realizzazione più bassa (parafraso a memoria, il concetto era quello), e lo mette in pratica Rocco Papaleo, benedetto come regista dal successo di Basilicata Coast to Coast e ora crollato sotto il peso di un film che vuole essere cinema audace, politico, narrativamente decostruito, schierato e coraggioso ma finisce per essere solo noioso, sciatto e privo di qualsiasi interesse.

Quello che Una piccola impresa meridionale vuole affrontare è la dicotomia più raccontata dal cinema italiano degli ultimi 20-30 anni (e forse anche quella raccontata peggio), ovvero il contrasto tra i grandi mutamenti sociali e tecnologici degli ultimi anni (più quelli derivati dall'incrocio di questi due ambiti) e il forte tradizionalismo del sud Italia. La spinta avanti individuale contrapposta al freno del pensiero sociale dominante nei paesi e nelle provincie.

Ci sono solo outsider moderni (italiani e stranieri) in quest'ode piccina all'anticonformismo: un prete spretato che non rinnega il proprio ruolo, una coppia lesbica, una escort fiera di esserlo, una famiglia particolare e (in omaggio agli stereotipi di una volta) anche un cornuto che la prende con filosofia. Tutte persone che per una ragione o per l'altra non possono stare in paese, dove sarebbero dileggiati, guardati male, non assunti o peggio e si rifugiano su un faro (la fuga in un luogo dell'anima, sospeso tra natura ed eremitaggio, in cui ritrovare se stessi, un altro topos fallimentare del nostro cinema recente).

Queste diverse individualità Papaleo le accumula nel suddetto faro, le lascia interagire con simpatia cercando di fare in modo che risolvano i problemi tra di loro e poi a vicenda gli uni quelli degli altri, come una piccola società autosufficiente fino ad un tentativo di riconciliazione con la comunità d'origine dal cui esito si evince la morale ultima del film, chiara, ben indentificabile e posizionata al termine della storia.

Questa storia di emarginazione e garbata intolleranza è raccontata con il minimo della pregnanza, attraverso una serie di microtrame accostate una accanto all'altra, narrate non certo ad intreccio ma in sequenza, generando il minimo dell'interesse assieme al massimo del fastidio per un impianto di commedia inesistente che accatasta gag senza integrarle nel racconto.

Quello che Una piccola impresa meridionale manca totalmente è il cinema in sè, ovvero uno svolgimento drammaturgico per immagini e suoni capace di creare senso, perchè anche la colonna sonora molto presente di Rita Marcotulli è usata come in un film di Aldo, Giovanni e Giacomo, per creare un'empatia ruffiana, forzata e artificiale all'ultimo minuto, attraverso collage di immagini che appaiono come scarti di lavorazione riutilizzati.

Impossibile quindi passare sopra i momenti peggiori del film, le esultanze al ralenti, la messa in scena priva di idee, la totale assenza di un'idea originale sul tema trattato o anche solo di un'ottica capace di colmare la distanza tra chi non si identifica e chi è rappresentato, capace cioè di rendere tema universale una questione particolare, per lodare le pochissime componenti sensate (e comunque mal sfruttate) come la fissa malinconia del personaggio protagonista.

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