Una Notte da Leoni 3, la recensione

Il terzo capitolo della serie chiude tutto come promesso ma lo fa nella maniera più deludente, calmando le acque e negando i presupposti e le conquiste degli altri film...

Critico e giornalista cinematografico


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C'erano principalmente tre elementi ad aver reso fuori dall'ordinario (e divertente in una maniera diversa dagli altri film) Una notte da leoni. Il secondo episodio aveva cercato di replicarli ma era venuta un'inevitabile copia sbiadita. Ora gli stessi tre motivi rendono il terzo film ordinario e molto, molto deludente.

C'era una struttura investigativa a ritroso che dava gran ritmo e freschezza anche alle gag abusate. C'era l'Alan di Zach Galifianakis, uno scemo comico diverso dal solito, dotato di un infantilismo proprio, davvero imprevedibile e spiazzante. E infine c'era l'idea (tipica di tutti i film di Philips e che corre sottopelle anche nei film che produce come Project X) che la vera natura dell'uomo si esprima compiutamente solo nell'irresponsabile caos adolescenziale mentre il resto della vita sia una repressione di quei movimenti che continuano a battere nel profondo nell'animo, e tanto più li si reprime tanto più si ripresentano con forza una volta persi i freni inibitori (come nel caso del dentista, il più tranquillo nella vita civile e il più pericoloso nel delirio).

Tutto questo rendeva esilarante un film divertente.

Una notte da leoni 3 nega tutto ciò. Cambia struttura, ritorna sul luogo del delitto originale (Las Vegas) ma senza quel percorso attraverso la capitale della sbronza e riconduce lentamente tutto all'alveo della normalità. Per questo nel film si ride nettamente più all'inizio, durante la quiete prima della tempesta, quando è il pensiero di quel che potrà accadere condito ai ricordi di quel che è accaduto a funzionare.

Il resto del film invece procede sui binari delle commedie usuali (con un doppiaggio italiano nettamente peggiore del solito), con dei momenti divertenti ma episodici, cioè privi di quella forza data dalla creazione di un mood paradossale, in cui ogni minimo atto diventa l'ennesimo e quindi esilarante sforzo di mantenere una dignità di fronte all'esposizione della vera natura di ognuno.

Ciò che però è davvero inaccettabile è la maniera in cui Todd Philips e compagni (ma gli sceneggiatori originali, Jon Lucas e Scott Moore, non ci sono più già dal film precedente) decidano di chiudere la parabola, trasportando tutti verso la fine di quella che, a questo punto, inscrivono come una parentesi nelle loro vite. Non più il ritorno di una falsa tranquillità ma la conquista della maturità dell'età adulta (con un po' più di esplicito insistere sull'omosessualità latente di qualsiasi "branco").

La chiusa del primo film sanciva una fine per nulla rassicurante, rimetteva la medesima patina di civiltà e presentabilità sui personaggi senza che nulla fosse cambiato e con lo spettro che tutto potesse ricapitare "Ok, guarderemo le foto una volta sola e poi le cancelleremo, daccordo?". Qui invece anche l'assurdità di Alan è ricondotta verso la quiete, anche il suo essere outsider da tutto solo perchè effettivamente ragazzino (non come gli altri che hanno represso ogni istinto ma poi sono peggio di lui) è ricondotto a un equilibrio.

Totalmente inutile, se non solo più fastidioso in questo senso, il finale che si presenta dopo la prima parte dei titoli di coda. Suona quasi come una presa in giro.

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