Una Giusta Causa, la recensione
Con finalità precise e nessuna fantasia nell'eseguirle, Una Giusta Causa somiglia più ad un progetto che ad un film
Questo non significa che sia necessariamente un brutto film Una Giusta Causa, è corretto, scorrevole (per quanto un filo lungo) e così usuale da provocare quel piacevole massaggio nel retro del cervello dato dalla ripetizione di ciò che già conosciamo con solo piccoli e limitati elementi di novità.
Nella cornice del novecento americano Ruth Bader Ginsbourg, realmente esistita (non mancheremo di vederlo alla fine prima dei rituali cartelli che spiegano cosa sia poi successo ai protagonisti), cerca di diventare avvocato ma finisce per diventare un accademico, la società non le consente di fare la professione perché donna. Al massimo potrà insegnare. Dopo anni di insegnamento proprio del diritto sulla parità di genere le capiterà l’occasione di una causa fatta a misura di cambiamento, vincendola si può dimostrare che la legge americana sbaglia a discriminare tra uomo e donna.
Il manuale delle sceneggiature applicato senza lavorarci sopra dalla mano di un esordiente, Daniel Stiepleman.
Non aiutano un Armie Hammer scarso (la scena in cui si sente male grida vergogna) e una Felicity Jones così carica di senso di responsabilità da non osare niente e limitarsi al minimo. Mentre avrebbe potuto aiutare (e molto) il fatto che Una Giusta Causa cerca di allargare il suo tema senza fare necessariamente del femminismo ma abbozzando anche l’idea che parità di diritti vuol dire pure liberare gli uomini dai ruoli e dai compiti che la società li obbliga ad assumere (o evitare). Peccato che però il film anneghi tutto nella retorica creando un legame diretto tra parità di diritti e costituzione americana. Dal punto di vista di Una Giusta Causa la parità tra uomo e donna è cosa buona e giusta perché è costituzionale, è quanto di più americano ci possa essere. Che è un modo di spiegarlo al pubblico locale ma fa sorridere quello internazionale.