Una femmina, la recensione
Una storia di crimine e gender interessata soprattutto a levare il genere dal racconto, che però non trova nulla di valido con cui sostituirlo
Sud Italia. Crimine organizzato. Donne. Anzi femmine, perché a Una femmina interessa moltissimo la contrapposizione di gender, cioè gli atteggiamenti che i sessi devono avere gli uni nei confronti degli altri e la gerarchia che esiste. La femmina più protagonista è una ragazza che non ci sta a questo sistema e si ribella con un amore. Non “per amore” ma “con un amore”. All’ennesimo sopruso, omicidio, violenza e umiliazione qualcosa scatta. L’idea ovviamente è che gli uomini abbiano un atteggiamento battagliero e duro e che questo nasconda il suo opposto, mentre le donne, se si ribellano, sono il sesso forte.
Anche perché quella che viene raccontata non è mai una vicenda sociale, cioè benché espressione di una condizione diffusa non è mai la ribellione a qualcosa di grande ma è una questione privata, con ragioni private e individuali e ricadute private. E sottrarre a una questione privata la parte più accattivante, la tensione di un personaggio in lotta, fa scivolare tutto il racconto in breve nel territorio del velleitario. Per spiegarci meglio, Una femmina è uno di quei film in cui ad un certo punto qualcuno parla a qualcun altro e questo altro guarda fisso in avanti, uno che fatica a trovare modi interessanti per far interagire i propri personaggi e lascia che questi sfocino facilmente nell’overacting.