Una femmina, la recensione

Una storia di crimine e gender interessata soprattutto a levare il genere dal racconto, che però non trova nulla di valido con cui sostituirlo

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
La recensione di Una femmina, al cinema dal 17 febbraio

Sud Italia. Crimine organizzato. Donne. Anzi femmine, perché a Una femmina interessa moltissimo la contrapposizione di gender, cioè gli atteggiamenti che i sessi devono avere gli uni nei confronti degli altri e la gerarchia che esiste. La femmina più protagonista è una ragazza che non ci sta a questo sistema e si ribella con un amore. Non “per amore” ma “con un amore”. All’ennesimo sopruso, omicidio, violenza e umiliazione qualcosa scatta. L’idea ovviamente è che gli uomini abbiano un atteggiamento battagliero e duro e che questo nasconda il suo opposto, mentre le donne, se si ribellano, sono il sesso forte.

Francesco Costabile prende questa trama che poteva essere un revenge movie come anche qualcosa di più d’azione (fughe, piani, rivolte, lotte tra clan, incendi…) e lo raffredda, utilizza tantissime tecniche del cinema horror, più che altro grazie al sonoro ma in certi casi rubando anche sguardi e volti, asciugandoli di tutta la componente effettivamente di genere, trasformandoli in strumenti per fare altro. L’obiettivo è levare, levare il genere al genere e rimanere con i personaggi e le loro tensioni, trasformare qualcosa di potenzialmente spettacolare in un film d’autore. In questo processo però tantissimo si perde e poco si guadagna, e la parabola della protagonista, pur se chiara, perde di senso e di mordente.

Anche perché quella che viene raccontata non è mai una vicenda sociale, cioè benché espressione di una condizione diffusa non è mai la ribellione a qualcosa di grande ma è una questione privata, con ragioni private e individuali e ricadute private. E sottrarre a una questione privata la parte più accattivante, la tensione di un personaggio in lotta, fa scivolare tutto il racconto in breve nel territorio del velleitario. Per spiegarci meglio, Una femmina è uno di quei film in cui ad un certo punto qualcuno parla a qualcun altro e questo altro guarda fisso in avanti, uno che fatica a trovare modi interessanti per far interagire i propri personaggi e lascia che questi sfocino facilmente nell’overacting.

Perché si capisce che ad essere coinvolti non dovrebbero essere delle sensazioni delicate ma sentimenti forti e tempestosi, tuttavia Una femmina fa una grandissima fatica a rappresentarli. Si affida molto alla sua protagonista, Lina Siciliano, dotata di una grinta non da poco quando si muove ma molto più in difficoltà quando non può recitare con il corpo ed è costretta a farlo solo con il volto. Uno scotto che il film paga soprattutto alla fine, quando vorrebbe chiudere quasi come Il profeta di Audiard ma per farlo avrebbe bisogno di aver costruito tutta un’altra parabola, con un’altra forza.

Continua a leggere su BadTaste