Una famiglia mostruosa, la recensione

Una famiglia di mostri classici che ballano Tintarella di Luna è il massimo del fantastico cui il nostro cinema mainstream può aspirare ad oggi

Critico e giornalista cinematografico


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Una famiglia mostruosa, la recensione

Cambiare tutto perché nulla cambi.

Il cinema italiano commerciale sta scoprendo con una lentezza esasperante l’esistenza del fantastico, cioè il fatto che esiste un pubblico disposto a divertirsi con storie di magia, futuro, incubi o come in questo caso parodie di mostri classici. Ma lo fa con una reticenza incrollabile ad abbandonare i vecchi modelli, quelli della commedia commerciale classica. Il fantastico continua a non essere una scelta ma solo un trucco. Così Una famiglia mostruosa è una storia di vampiri, streghe e mostri che funziona esattamente con le dinamiche, gli intrecci e gli stereotipi delle commedie di Natale (quella è la sua collocazione) al netto dell’epurazione di sesso, scurrilità e volgarità in atto ormai da anni. Anche la totale generica inconsistenza di Cristiano Caccamo e Emanuela Rei, i fidanzati, è parte del pacchetto classico.

Con il medesimo spunto di Ogni maledetto Natale (una coppia in visita per Natale dai genitori di uno dei due) o di Il peggior Natale della mia vita (i genitori che massacrano il fidanzato o la fidanzata) e le medesime idee di casting di Poveri ma ricchi (Lucia Ocone in una parte simile e una vecchia gloria poco usata del passato come Pippo Franco al posto di Anna Mazzamauro), la trama non discosta troppo dai suoi modelli. Lui e lei innamorati vanno per Natale a casa dei genitori di lui. Che sono mostri. Lei non lo sa e per tutta la prima parte cercano di nasconderlo. Quando poi arriveranno a sorpresa i genitori di lei, che sono coattissimi, il contrasto sarà inevitabile.

È l’Italia raccontata per opposizioni logiche (se non è Nord contro Sud, è poveri contro ricchi, se non è intellettuali contro ignoranti è, come in questo caso, coatti contro signori), un bacino inesauribile di gag tutte simili tra loro che vive di interpretazioni. In questo caso Ilaria Spada e Lillo, la coppia coatta, mostrano una grandissima marcia, la loro comparsa a metà film porta tutto ad un livello accettabile di ritmo (finalmente) e mette in ombra il resto del cast. Soprattutto mostra come il fantastico sia interpretato controvoglia.

Dovrebbe essere la particolarità del film (una specie di Hotel Transylvania al contrario) e invece solo quando tornano i buoni vecchi personaggi coatti da cinema italiano di una volta si respira un po’. Perché questo rimane un cinema che non è mai di scrittura e sempre di casting, affidato agli estri degli attori coinvolti e alla loro capacità di rimettere in scena qualcosa di già visto con una verve e una personalità che portino nuovo divertimento su contenuti vecchi.

Con lo stesso spunto di Get Out (in un maniero lontano uno attira l’altro presso una famiglia predatrice) o di Wolf Children (lei è incinta di lui, uomo lupo, e non sanno cosa accadrà), l’esito per noi è inevitabilmente una commedia di Natale. E anche l’idea di “chi è più mostruoso tra i veri mostri e i coatti?” è ben presto svicolata per approdare a lidi ben più innocui e concilianti, per tornare indietro, per un balletto con in sottofondo Tintarella di Luna, perché dagli anni ‘60 italiani non si esce mai. Mai! Nemmeno con una commedia di mostri.

Infine una frase finale moralista mozza le gambe a qualsiasi residuo interesse poteva esserci nel ripensare al film appena visto.

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