Una donna promettente, la recensione
Arrabbiato come la causa che spalleggia comanda, Una donna promettente è un film giustamente violento che però ha paura di essere violento
L’impostazione è sostanzialmente quella del revenge movie, una donna con un trauma (che scopriamo lentamente) trascura tutto per dedicare la propria vita a perseguire i predatori sessuali. Come Il giustiziere della notte anche la protagonista di notte si aggira per fare lei quel che la giustizia non riesce a fare. Nei bar e nei locali si finge ubriaca al punto che non sembra troppo difficile approfittarsi di lei. Lascia che le sue vittime credano che lei sia una possibile vittima, che la portino a casa loro e inizino effettivamente ad approfittarsene, si assicura che non si fermino di fronte ai suoi mugugni contrari prima e ad una chiara esibizione di dissenso poi e infine, quando dimostrano di voler avere un rapporto sessuale con lei anche se lei non lo desidera, di colpo smette di fingersi ubriaca e li incastra alle proprie colpe, gli espone quanto di sbagliato stiano facendo e con un discorso li mette di fronte alla bestialità dell’atto.
Tra la violenza del giustiziere e la predica innocua ci sarebbero moltissime vie di mezzo ma Una donna promettente fa una scelta di campo: quando ci si aspetterebbe un po’ di plausibilità (cioè nell’intreccio) ricorre alle implausibilità del cinema; quando invece sarebbe accettabile e forse auspicata un po’ di esagerazione e allegoria narrativa (al momento della soddisfazione) diventa più realistico.
È violento negli schematismi e nella creazione di una realtà ad uso e consumo della sua vendetta e nel sottomettere tutto alla sua sete di vendetta. È un film che vuole aver ragione su un terreno in cui non è difficile averla ed è preoccupatissimo di essere inattaccabile, come se fosse necessario essere immacolati per aver ragione. Così facendo mette la propria protagonista sul piedistallo dell’inattaccabilità suonando solo puerile e pavido. Oltre che un suicidio cinematografico.