Una donna promettente, la recensione

Arrabbiato come la causa che spalleggia comanda, Una donna promettente è un film giustamente violento che però ha paura di essere violento

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono diverse ragioni per le quali Una donna promettente, nonostante l’impegno e tutto il buon mestiere che mette in campo, alla fine della sua corsa suona deludente. Sono ragioni che hanno a che vedere con la missione che Emerald Fennell si prefigge, con l’atteggiamento che sceglie di tenere e con i molti (troppi) doveri che il film sente di avere.

L’impostazione è sostanzialmente quella del revenge movie, una donna con un trauma (che scopriamo lentamente) trascura tutto per dedicare la propria vita a perseguire i predatori sessuali. Come Il giustiziere della notte anche la protagonista di notte si aggira per fare lei quel che la giustizia non riesce a fare. Nei bar e nei locali si finge ubriaca al punto che non sembra troppo difficile approfittarsi di lei. Lascia che le sue vittime credano che lei sia una possibile vittima, che la portino a casa loro e inizino effettivamente ad approfittarsene, si assicura che non si fermino di fronte ai suoi mugugni contrari prima e ad una chiara esibizione di dissenso poi e infine, quando dimostrano di voler avere un rapporto sessuale con lei anche se lei non lo desidera, di colpo smette di fingersi ubriaca e li incastra alle proprie colpe, gli espone quanto di sbagliato stiano facendo e con un discorso li mette di fronte alla bestialità dell’atto.

Già in questa complicata procedura fatta di assensi, consensi, certezze di colpevolezza e nella predica che segue (ma soprattutto nella reazione contrita degli uomini che fino a poco prima volevano violentarla!) sta una delle stranezze di un film che si presenterebbe come un manifesto arrabbiato. La storia che Una donna promettente è di quelle che infiammano ed è proprio sull’indignazione che vuole lavorare, sulla rabbia e sul senso di sopruso. Purtroppo la sua idea di soddisfazione è una predica. Là dove un cinema più spietato di qualche decennio fa non avrebbe esitato a fare della protagonista un’omicida, un'eviratrice o comunque una violenta (proprio per sottolineare la rabbia e il desiderio di rivalsa), Una donna promettente ne fa una giustiziera molto corretta ed equilibrata (l’unico accenno di sangue è una metafora con gelato, quasi uno scherzo), una che elabora un piano da film e poi lo risolve come nella vita vera.

Tra la violenza del giustiziere e la predica innocua ci sarebbero moltissime vie di mezzo ma Una donna promettente fa una scelta di campo: quando ci si aspetterebbe un po’ di plausibilità (cioè nell’intreccio) ricorre alle implausibilità del cinema; quando invece sarebbe accettabile e forse auspicata un po’ di esagerazione e allegoria narrativa (al momento della soddisfazione) diventa più realistico.

Non è solo la trama a cercare l'indignazione. Anche lo schematismo con cui vengono dipinti i personaggi, ovvero la galleria di maschi terribili e insalvabili (tutti, senza esclusione o distinzioni), appartiene al cinema indignato, quello a cui non interessa essere obiettivo perché il suo scopo è un altro, è infiammare gli animi lanciando una molotov contro una vetrina per attirare l’attenzione su una questione cocente. È La sposa in nero di Truffaut (meno raffinato) aggiornato e con un livore che quel film non aveva. Livore giustificato dalle rivendicazioni del mondo reale (oltre che dagli eventi narrati in sé) ma che poi nel film prende una strana strada. L’idea di non usare la violenza per condannare altra violenza, encomiabile nel mondo reale, suona quantomeno stonata in un film che invece violento lo è, e ha tutte le ragioni per esserlo, perché combatte una battaglia che ne giustifica la rabbia.

È violento negli schematismi e nella creazione di una realtà ad uso e consumo della sua vendetta e nel sottomettere tutto alla sua sete di vendetta. È un film che vuole aver ragione su un terreno in cui non è difficile averla ed è preoccupatissimo di essere inattaccabile, come se fosse necessario essere immacolati per aver ragione. Così facendo mette la propria protagonista sul piedistallo dell’inattaccabilità suonando solo puerile e pavido. Oltre che un suicidio cinematografico.

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