Un Uomo Tranquillo, la recensione
In una parte degli Stati Uniti che sembra la Norvegia Un Uomo Tranquillo cerca vendetta ma il film non gliela fa trovare
È una storia di omicidio e vendetta, di uno spazzaneve di provincia che vuole vendicarsi dell’omicidio di suo figlio da parte dei signori della droga locali. Contatta killer a pagamento, si rivolge ad un fratello con legami in quel mondo e alla fine decide di fare da sé con metodi poco ortodossi. Intorno a lui le vite di questi criminali e poliziotti, di chi vive in quelle lande e fa una vita o derelitta o lussuosa.
Ha un tono sottilmente ironico, un fare scanzonato pur nella sua efferatezza, personaggi paradossali e scoperte grottesche. Tutto senza esagerare: quel che basta a infastidire. Perché in realtà Un Uomo Tranquillo le carte giuste per fare un buon cinema di vendetta le avrebbe pure (a partire da Liam Neeson), ma gli mancano quelle per essere di più (più complesso, più vario, meno definito). In primis la neve, quei paesaggi innevati che stringono con i personaggi un rapporto molto diverso rispetto a quello cui Hollywood ci ha abituato e più simile (come già detto) a quello del cinema scandinavo. Il gelo mortale è nemico e amico al tempo stesso, è spaventoso e orrendo, porta a conseguenze terrificanti ma i personaggi non lo temono, sembra che a loro non li possa uccidere. Per loro non è una condizione transitoria ma perenne, come il deserto per i beduini.