Un sogno chiamato Giffoni, la recensione
Nel tentativo di fondere Cinema e Fumetto, Un sogno chiamato Giffoni ha perso per la strada i punti di forza di entrambi i media
Carlo Alberto Montori nasce a Bologna all'età di 0 anni. Da allora si nutre di storie: lettore, spettatore, ascoltatore, attore, regista, scrittore.
Da mezzo secolo il Giffoni Film Festival avvicina i giovani spettatori alla settima arte, proponendo pellicole provenienti da tutto il mondo e ospitando attori e registi di calibro internazionale. Cinema e Fumetto sono da sempre legati a doppio filo, quindi siamo felici di vedere che la manifestazione più importante del suo genere abbia deciso di celebrare la sua cinquantesima edizione con Un sogno chiamato Giffoni. Se l'intento iniziale del volume pubblicato da Feltrinelli Comics è più che nobile, purtroppo non possiamo dirci soddisfatti dal risultato: nel tentativo di fondere i due media si sono persi per la strada i punti di forza di entrambi.
Lo scalcagnato Romeo e Giulietta che vediamo prendere forma nel corso della lettura avrebbe potuto essere girato da un gruppo di ragazzi una ventina di anni fa; risulta difficile credere che sia frutto di giovani del 2020, nativi digitali abituati quotidianamente a fare video con il cellulare e montare vlog da pubblicare online. A maggior ragione visto che vengono presentati fin dalle prime battute come appassionati di cinema, che l'anno scorso hanno partecipato come volontari al Giffoni Film Festival; com'è possibile che qualcuno con un briciolo di cultura cinematografica non si renda conto di un risultato così imbarazzante? È un cast con una caratterizzazione forzata che ha come principale obiettivo quello di inanellare una serie di gag - alcune ispirate, altre meno - basate sulla loro inettitudine e goffaggine; non c'è però altro, nessun elemento reale di passione per il cinema o di coinvolgimento emotivo, arrivando così a un finale altrettanto artefatto e retorico, che sembra voler abbassare l'asticella della qualità tollerabile a un livello degno del peggior René Ferretti.
Più che a un'opera compiuta assomiglia a uno storyboard, colorato e sistemato per essere pubblicato, ma che avrebbe la necessità di un ulteriore passaggio per permettere a un pubblico di goderne. I personaggi disegnati da Wallie non sono particolarmente espressivi, né per quanto riguarda il volto né per le posture dei corpi: siamo al cospetto di uno scheletro al quale andrebbe applicata l'interpretazione di un attore per funzionare. Questo minimalismo emotivo richiede quindi al lettore di sopperire alle mancanze, uno sforzo a cui noi appassionati di fumetti siamo abituati riempiendo gli spazi bianchi tra una vignetta e l'altra, ma forse in questo caso c'è troppo poco per permettere al volume di reggersi in piedi sulle sue gambe.