Un Petit Frére, la recensione | Cannes 75
Una famiglia, tre membri, tre storie che si snodano in tre decenni per raccontare il senso del tempo che passa e delle vite che scivolano
Bisogna arrivare alla fine di Un Petit Frére per comprendere dove questo film voglia andare a parare, bisogna cioè arrivare al punto in cui, passati circa 30 anni nella vita di una famiglia immigrata (non è ben chiaro quando) dalla Costa d'Avorio, alcuni dei suoi membri si incontrano in un diner. Come Heat, come Pulp Fiction, come Le catene della colpa, come il cinema americano di genere questo film francese che non ha niente del genere, chiude in un fast food/diner/ristorante da poco la sua storia con un confronto a due in cui esiste tutto il senso del tempo che passa, dei corpi che cambiano, del rimpianto, delle speranze e di una vita.
Sono tre diversi modi di vivere, subire la situazione di un paese (spesso ci sono i notiziari di sottofondo), e metabolizzare una crescita e un rapporto con i propri genitori, con la propria comunità e con il peso delle aspirazioni. Come i romanzoni ottocenteschi questa storia di personaggi che vivono come possono i loro tempi è un quadro sugli ultimi 30 anni visti dagli immigrati che ha il buon senso di non affidarsi ai soliti luoghi comuni sulle storie di immigrazione, ma anzi spesso spiazza. Non c’è un ritratto della Francia (per fortuna) ma quello di alcune persone raccontate svicolando i soliti schemi e cercando un altro cinema, nella forma molto francese (stavolta sì), cioè attaccato alla vita ordinaria come quadro interpretativo del senso delle immagini, e nello svolgimento e nei personaggi un po’ meno rassegnato del solito a fare cinema in serie.