Un passato da cancellare, la recensione
Il film un tema ce l’ha anche, ed è nobilissimo: la giustizia dei popoli indigeni, il loro diritto sulla terra. Questo tema però è oscurato dalla goffaggine con cui viene messo in scena
La recensione di Un passato da cancellare, dal 27 luglio su Netflix
Diretto da Alejandro Montiel, Un passato da cancellare è ambientato in un generico Sudamerica (scopriamo ora che è l’Argentina) in cui l’arrabbiata e serissima Pipa (Luisana Lopilato) cerca a tutti i costi di fare luce sulla morte apparentemente accidentale di una ragazza indigena che lavorava per la casa di ricchi snob razzisti intrallazzati in loschi giri di potere, corruzione, sesso. Dopo un’ora abbondante capiamo che il suo “passato da cancellare” è quello di poliziotta e allora cominciamo a mettere insieme qualche pezzo (e a capire perché sta agendo), ma il risultato è comunque disastroso.
La cosa più sbagliata del film è però la colonna sonora che imita a colpi di sintetizzatori e suoni elettronici le atmosfere di… John Carpenter?! Proprio così. Per ogni singolo dettaglio che accade la colonna sonora quasi da film horror irrompe fino a coprire i dialoghi, con un effetto di esagerazione distorta che non fa altro che distrarre dalla già complicata situazione narrativa.
Il film un tema ce l’ha anche, ed è nobilissimo: la giustizia dei popoli indigeni, il loro diritto sulla terra. Questo tema però è oscurato dalla goffaggine con cui viene messo in scena, semplificato, coperto da una trama poliziesca squilibrata. Siamo forse di fronte all’ennesimo esempio di “film-algoritmo” alla Netflix, costruito per “must have” e genericamente impegnato.
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