Un boss in salotto, la recensione

Apatico e lieve nelle gag come molte commedie italiane moderne, il nuovo film di Miniero si concede la violenza e la rabbia che Benvenuti al Sud/Nord non potevano avere, trovando così un senso...

Critico e giornalista cinematografico


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Inizia con una dichiarazione d'intenti chiara il nuovo film di Luca Miniero, una frase di Massimo Troisi: "Si dice sempre che Napoli deve cambiare ma non sento mai dire che Mantova o Rovigo devono cambiare" (cito a memoria l'italianizzazione fatta da Miniero della battuta in napoletano contenuta in No grazie, il caffè mi rende nervoso).

Centra poco la mafia o il contrasto tra criminalità e legalità, tra alta borghesia e veracità criminale in Un boss in salotto, cioè tutto quello che titolo e poster sembrano suggerire non sono veramente l'asse portante del film (lo sono forse e poco, solo all'inizio) ma specchietti per le allodole, tentativi di far rientrare il film in una convenzionale prevedibilità commerciale dalla quale (senza sforzarsi troppo) cerca di uscire. Perchè in realtà ciò che muove realmente tutti i contrasti e scatena le gag del film è ciò che anima ogni opera di Luca Miniero, ovvero lo scontro tra abitudini e stile di vita meridionali e settentrionali, il fatto che il medesimo carattere nazionale prenda forme diametralmente opposte (con una chiara dipendenza climatico/geografica).

Questa volta al nord non viene benvenuto Ciro, fratello di Carmela, che anni fa si è trasferita in Trentino, ha cambiato nome in Cristina e ora sfoggia un accento nordico. Volendo dimenticare il suo passato Cristina alla sua famiglia aveva detto che zio Ciro era morto, in realtà è un malavitoso che per gli arresti domiciliari (in attesa del processo per associazione mafiosa) ha scelto casa della sorella.

Come si diceva il turbine che la nuova presenza porta nella vita eccessivamente precisa e violentemente aspirazionale della famiglia Coso (in difficoltà e disprezzata già dal cognome) non è tanto quello della criminalità (sempre più lieve al procedere del film) ma quello della meridionalità (dimensione di vita panica, visione più lieve delle regole e individualismo spinto), come se andando avanti nella scrittura e nelle riprese il film mutasse lasciando emergere l'interesse vero di Miniero. La maniera in cui Ciro forza abitudini nordiche per inserire idee campane non è infatti diversa da quella in cui la bambina di Incantesimo napoletano faceva l'opposto.

Come già evidente con il dittico Benvenuti al Sud/Nord, il cinema di Luca Miniero lavora poco sulle singole gag (banali e note nè più nè meno di quelle di quasi tutte le commedie italiane) e molto sulla parola, si esalta nella direzione di comici o attori che lavorano di fino (prima Bisio ora Paola Cortellesi) e soprattutto mira a dar vita ad un clima generale da commedia. In questo caso, e per la prima volta, si percepisce una sana e forte acrimonia. Sono le falsità dei rapporti sociali alto borghesi, che il film identifica con l'aziendalismo nordico ma che poi appartengono anche a tutto il paese rappresentato, la cretineria del credersi migliori (compresa quella dell'aspirare ad essere riconosciuti come tali) e la vacuità della sudditanza psicologica, gli atteggiamenti che ripetutamente sono ridicolizzati con una minuzia e una perizia non comuni che costituiscono di certo la parte migliore di un film che altrove non manca di trattare con sufficienza l'obbligatoria (?!?) melassa sentimentale.
E' in sostanza un'onesta e pacata rabbia ad animare questa visione infernale e spietata dell'estremo nord, guardato ovviamente dal meridione, un fastidio umano e un senso di giustizia nel riequilibrio di luoghi comuni e dicerie che danno (se non altro) al film la forza che le commedie italiane possiedono sempre meno.
Incomprensibile l'ultima inquadratura, una veduta in cui due palloncini rossi volano verso il cielo.

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