Un bambino chiamato Natale, la recensione

La origin story di Babbo Natale di quest'anno la offre Netflix e ci aggiunge così tanti elementi che fatica a controllarli

Critico e giornalista cinematografico


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Un bambino chiamato Natale, la recensione

La grande mitologia del Natale prevede che ogni anno siano sacrificati sul suo altare diversi nuovi film in cui raccontare da dove venga la tradizione dei doni e di Babbo Natale. Una vagonata di origin story diverse a partire dai medesimi elementi.

Questa che viene da un regista di horror e storie per ragazzi (e anche proprio da una storia per ragazzi scritta da Matta Haig) è di particolare impegno e budget e trasforma la storia di come sia nato Babbo Natale, in un racconto vicino al fantasy, in cui un ragazzo viaggia attraverso la Lapponia finlandese per ritrovare suo padre, in compagnia di un topo parlante, finendo per scoprire il villaggio nascosto degli elfi. A quel punto le cose si fanno un po’ più complicate, perché la storia della ricerca del padre partito per una spedizione e ancora non tornato, diventa anche la storia della liberazione del villaggio degli elfi, intrappolato da una dittatrice (regolarmente eletta però!) che parla come i politici più populisti del nostro mondo, che non vuole ingerenze esterne e “prima gli elfi”.

Non c’è da farsi illusioni Un bambino chiamato Natale è un film di scenari, di alberi, neve e renne, uno che punta moltissimo su quella dimensione dello spirito natalizio, sulle case addobbate, il pan di zenzero e l’avventura della consegna dei doni. Ha anche un finale quasi da canto di Natale con un regnante in camicia da notte che accompagna il giovane Natale (non ancora Babbo). Come si capisce non tutto è lineare e dentro questo film c’è più di un film solo. È evidente che sono più forti gli obiettivi da raggiungere (film d’avventura, sentimenti familiari, storia di liberazione dalla dittatura, origine della tradizione dei doni, magia….) che la capacità di mettere tutto in armonia in un racconto coerente e fluido. Questo nonostante sia stata scelta una cornice metanarrativa, cioè tutta la storia è il racconto che una donna (Maggie Smith) fa a dei bambini, cosa che aiuta a mettere insieme i vari pezzi.

Non che non sia godibile Un bambino chiamato Natale, ma l’impressione è che lo sia non grazie alle scelte di linguaggio ma grazie all’impostazione della produzione. Un trionfo industriale in cui la presenza di un numero impressionante di grandi attori britannici (oltre a Maggie Smith anche Jim Broadbent, Kristen Wiig, Toby JonesSally Hawkins in un inedito ruolo cattivo) rende digeribili anche i passaggi più farraginosi e dà molta vita ad una storia che di suo ne avrebbe ben poca.

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