Un altro giro, la recensione | Roma 15
Con uno spunto folgorante, Un altro giro usa proprio quell'idea intrigante per indagare il bisogno umano che spinge i personaggi
Ah! Dettaglio non da poco: i quattro protagonisti sono insegnanti in un liceo.
Un altro giro ovviamente ha gli alti e bassi e gli eccessi che ci si può aspettare da una trama simile, perché dopo i primi tentativi di bere “solo nelle ore di lavoro, mai la sera o nel weekend” i quattro si faranno prendere la mano e non tutto andrà bene, ma la maniera in cui presenta una questione su cui sembra facile avere un’opinione, riuscendo a far sembrare impossibile avere un’idea certa, parla di un cinema che davvero non giudica ma è curioso di tutto quel che riguarda gli esseri umani. In più la maniera in cui usa quest’esperimento per descrivere non tanto gli esiti (obiettivamente come volete che vada a finire?!?) ma le motivazioni che spingono 4 danesi di 50 anni a provare a vivere un po’ ubriachi e che li fanno innamorare dei risultati è da manuale. In questo modo Vinterberg al solito interesse per come la società ci guarda e come siamo condizionati da questo dover vivere assieme agli altri (è pur sempre il regista di Festen!), affianca anche una prossimità invidiabile ai personaggi, riesce raccontare la difficoltà di relazione spesso al centro dei film nordici in una maniera diversa, una che possa interessare anche sotto la Germania.
Se si passa sopra qualche differenza culturale e qualche forzatura utile a far procedere la trama Un altro giro sa conquistare soprattutto con le interpretazioni. Perché alla fine è un grido di disperato desiderio di contatto umano che passa da sguardi e cambiamenti nei protagonisti. Lo capiamo subito, nella cena in cui i 4 amici per la prima volta introducono l’idea al centro di tutto, quando Mads Mikkelsen (il più a fuoco) trattiene le lacrime e beve compulsivamente ma non parla, tenendo dentro di sé un forte risentimento verso se stesso contro cui sembra impotente. Lo stesso che lo spingerà per primo a tentare questa estrema soluzione per ribaltare la propria vita.
Anche il finale che coincide con la festa per la maturità dei loro studenti non sarà propriamente impeccabile, ma la vera chiusa (l’ultimissima scena, una festa e un ballo in strada che segue di poco un funerale) è una tale delizia, una celebrazione alcolica in cui Mikkelsen è bagnato da champagne mentre danza in un trionfo di alcol con movenze così appropriate (girate senza controfigura, ha un passato da ballerino) che fanno slittare il film verso un altro reame, dal reale all’ideale. È una ritrovata gioia che ha il sapore amaro della richiesta di comunione e di empatia che si chiude con un fermo immagine perfetto.