Un altro ferragosto, la recensione
Non c'è solo il tempo che passa per i personaggi di Un altro ferragosto nel film ma anche quello che passa per lo stile dei suoi autori
La recensione di Un altro ferragosto di Paolo Virzì, in uscita in sala il 7 marzo
Un altro ferragosto non finge di aver dimenticato il primo film, anzi, inizia con una versione techno delle battute di quel film e continuamente ripropone estratti fugaci come ricordi di ognuno. Sono i corpi giovani di allora che metaforicamente guardano i corpi vecchi di oggi, i sogni e i problemi di allora rievocati per vedere come siano andati a sbattere oggi (ma è anche lo stile registico di Virzì di ieri contrapposto a quello completamente diverso di oggi). E questa che poteva facilmente essere la riproposizione di un tipo di cinema che (come sempre) appartiene al proprio tempo, invece diventa la dimostrazione di come scrittura di Francesco Bruni (che ha sceneggiato il film con Paolo e Carlo Virzì) e la regia dello stesso Virzì siano nel tempo cambiate, migliorate ed evolute. Sullo stesso canovaccio, con gli stessi interpreti e gli stessi personaggi lavorano in modi nuovi e addirittura alcuni dei nuovi innesti (Christian De Sica e Emanuela Fanelli) sono i personaggi migliori.
E in questo film realmente sorprendente, così mesto, rassegnato e funereo, in cui la morte è ovunque e arriva per tutti devastando ogni cosa, sembra di vedere il negativo di A casa tutti bene di Gabriele Muccino, altro film familiare isolano con cast corale (lì legati tutti insieme da pianisequenza. qui con un grande uso della profondità di campo e dei diversi piani). Solo che mentre a Muccino interessano proprio le persone e dire qualcosa sulla nostra umanità tramite loro, Un altro ferragosto racconta i suoi tipi umani, così ben scritti e così terribilmente umani mai stereotipi ma sempre prototipi, come espressione della popolazione, per riflettere sul paese. In entrambi i casi l’Italia, vista tramite la famiglia, è un posto di violenza e prevaricazione.