Un'altra scatenata dozzina, la recensione
Terza iterazione di un film che cambia sempre per raccontare ogni volta l'America sognata da Hollywood, l'idea sociale più forte in circolazione
Non c’è propriamente un umorismo devastante in Un'altra scatenata dozzina, come non c’è vero dramma o vera tensione: tutto è allungato in modo che non dia fastidio e non esageri con le emozioni ma accompagni lungo la storia di una famiglia con 9, 10 figli (numero che varia nel corso del film) e dei loro contrasti, così usuali da rendere impossibile il vero coinvolgimento. Ci vorrebbe la capacità di catturare il quotidiano di Linklater per rendere Una scatenata dozzina significativo, la consapevolezza e la capacità di puntare su quanto di più normale e condiviso possa esistere sapendo leggere in esso se non proprio poesia (sarebbe troppo da chiedere), almeno ironia.
Tuttavia questo è anche il modo più sbagliato di approcciarsi al film. Un'altra scatenata dozzina è altro: è una periodica fotografia degli Stati Uniti non per quello che realmente sono ma per quello che realmente vogliono essere, la sintesi periodica dell’immagine riflessa da Hollywood. Come l’America del cinema sogna se stessa. La prima versione, quella del 1950 (Dodici lo chiamano papà), era la vera storia di Frank Gilbert e sua moglie, genitori di 12 figli, l’apoteosi dello spirito americano. Lui, esperto di efficienza e ottimizzazione della catena taylorista, l’ingranaggio fondamentale del sistema produttivo americano. Era il cinema dell’american way of life ai massimi e il sogno di un paese che si percepiva eccezionale perché efficiente e l’espediente dei 12 figli metteva il capofamiglia ogni volta in condizione di “ottimizzare” i processi gestionali della famiglia.
La morale sarà che non c’è bisogno di spingere il capitalismo e volere sempre di più, la salsa commercializzata e il ristorante a gestione familiare vanno già bene così.