L'ultima notte di Amore, la recensione

A Milano un poliziotto che sta per andare in pensione accetta per soldi un patto con dei cinesi e trasforma la sua ultima notte in un incubo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di L'ultima notte di Amore, al cinema dal 9 marzo

La gestione del tempo è quello che distingue un film buono da uno eccezionale, e nello specifico un cineasta esperto da uno realmente abile. La capacità di accelerare o anche rallentare molto il ritmo senza che questo sia mai percepito come una forzatura ma sembri scaturire naturalmente dagli eventi è forse l’abilità più avanzata che un regista possa possedere. Il cinema di genere, in cui il ritmo quale esso sia è tutto, è forse la dimensione in cui questo è più evidente, perché la sua gestione del passo del racconto è parte della creazione di un senso. Andrea Di Stefano è al terzo film dopo un Escobar con Benicio Del Toro e un’altra produzione americana, The Informer, da cui già si notavano capacità e visione di cinema superiori alla media italiana quando si parla di genere. La creazione e scrittura della serie Bang Bang Baby ha poi tolto ogni dubbio sulle doti da sceneggiatore. Ora L’ultima notte di Amore mette insieme le due professionalità e tira fuori quello che senza dubbio è il miglior poliziesco italiano degli ultimi anni, un modello per chiunque voglia fare questo tipo di film da oggi in poi e un punto di riferimento per gli spettatori, uno sotto il quale non dovrebbero accettare di andare. Perché possiamo e perché così si scrivono e girano film.

Franco Amore è un poliziotto meridionale a Milano, con moglie calabrese e un giro di amici e parenti dai traffici furbetti da quattro soldi con i quali sta capendo cosa fare dopo la pensione imminente. Manca una settimana alla fine del suo lavoro in polizia. Lui è il contrario del furbetto, è un poliziotto integerrimo che non ha mai fatto carriera ma nemmeno mai sparato un colpo. Un povero diavolo con il senso del dovere. A lui un ricco affarista cinese di Milano vuole affidare la sua security, da subito, anche prima che finisca il lavoro in polizia, c’è infatti una donna da andare a prendere all’aeroporto. Amore si fa promettere che non ci sia niente di illegale ma solo a lui non è chiaro che invece sarà così e che andrà male. Nessuno però può prevedere cosa possa fare Franco Amore in quella nottata terribile per salvare se stesso e la sua famiglia. 

Come detto all’inizio però è il passo del film a donargli personalità e senso, a partire da un lungo volo iniziale su Milano che termina sulla finestra fuori da casa di Amore condotto senza fretta (titoli di testa dopo i quali è davvero difficile che un film possa andare male). Quello che viene dopo è così sicuro di sé e della propria capacità di coinvolgere lo spettatore ponendogli le scelte più difficili e agendo personaggi sempre diversi da quel che pensiamo, che non ha bisogno di incalzarlo ma si può permettere anche tutta una seconda parte sulla scena del crimine a passo lento, una corsa a chi arriva per ultimo, che come nel cinema poliziesco di Refn alimenta la tensione invece di ammazzarla.

In questo modo le ottime interpretazioni (con Pierfrancesco Favino ovviamente in prima linea, molto moderato e per nulla accentratore nonostante il ruolo intorno a cui gira tutto) finalmente non sono ciò che salva il film ma uno dei molti puntelli che lo sorregge e spinge in alto. Linda Caridi ha forse il personaggio migliore, quello che alla lunga emerge di più, la moglie del poliziotto meno integerrima di lui, più allarmata e incredibilmente determinata, dimostrando per la prima volta una solidità e una capacità di reggere scene anche complesse da applausi, mentre il solito Antonio Gerardi si conferma la sicurezza maggiore che esista oggi nel cinema italiano, un attore che non sbaglia un personaggio, non manca un carattere, non liscia mai una scena, un cecchino della recitazione, sempre efficace, sempre ottimo. Intorno a loro Di Stefano (che nasce e ancora è un attore) non trascura nessuno e il risultato, decisamente, si vede.

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