Per Primo hanno Ucciso mio Padre, la recensione

Raccontato con lo sguardo di una bambina, Per Primo hanno Ucciso mio Padre è un film che non conosce il ritmo ma bada solo a forzare le reazioni più scontate

Critico e giornalista cinematografico


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Al quarto film da regista Angelina Jolie (il primo distribuito solo su Netflix) dimostra che quando non è nel cast è determinata a raccontare storie di guerra con il fine di mettere in scena storie di vittime innocenti, di persone che resistono agli orrori che si palesano davanti ai loro occhi. Altrove era stata molto prolissa e pomposa, qui sconfina apertamente nel ruffiano, sfondando la parete della decenza e mettendo al centro di tutto una bambina dal cui punto di vista vediamo tutti gli eventi, alternando i suoi primi piani dagli occhi spesso lucidi con la visuale ad altezza ridotta, soffermandosi sui dettagli e sui frequenti cambi di fuoco.

Lo spunto è l’omonimo romanzo di Loung Ung (in Italia tradotto con Il Lungo Nastro Rosso), qui anche sceneggiatrice con la stessa Jolie, atto incontestabile di fedeltà alla realtà e dell’adozione del punto di vista meno contestabile, non solo quello delle vittime, ma quello delle vere vittime. Purtroppo quello che non convince in questa storia di una bambina ricca che perde tutto nel giro di una giornata e si trova in un campo di lavoro dei Khmer Rossi con i propri genitori e fratelli (il padre non rimarrà con loro a lungo come spiega il titolo) non è nemmeno la prolissità di cui abbondano i film della Jolie (regista) ma è proprio l’insistenza sulla sofferenza mai mitigata dal gusto o da un fine più alto.

A differenza di Unbroken e Nella Terra del Sangue e del Miele, qui Angelina Jolie cammina sul crinale della zona-Sean Penn, quella fondata da Il Tuo Ultimo Sguardo, in cui un film smette di essere una storia particolare resa universale dalla prospettiva di chi la racconta e assume lo sguardo degli invitati ad una raccolta fondi che dal loro tavolo si commuovono guardando un video a sfondo umanitario.

Per Primo hanno Ucciso mio Padre abusa del ralenti, dei colori saturi, dei silenzi e dei dettagli “poetici” in chiave drammatica per riprendere la morte e dargli la massima enfasi. Già a partire dal suo attacco il film monta i discorsi di Nixon che parlano di pace con le immagini delle bombe sganciate e un inadeguato sottofondo musicale (Sympathy For The Devil). Poi, seguendo il manuale del buon cinema europeo, tiene la sua protagonista-osservatrice muta per metà film fino a che non chiederà ad un’altra bambina dove si va dopo la morte. Come se non bastasse per spiegare quel che la bambina pensa, Per Primo hanno Ucciso mio Padre utilizza i suoi sogni, desideri di mangiare indotti dalla fame, incubi sui parenti morti.

Paradossalmente gli unici momenti sinceri davvero sembrano quelli in cui viene mostrata la tragedia di una famiglia ricca e benestante che di colpo perde tutto, che diventa povera, a cui viene sequestrato ogni bene, che deve vestirsi tutta allo stesso modo e che non potrà più curarsi come una volta.

Il film poi non rinuncerà a un finale all’americana, in cui tutto quello che la bambina ha imparato di malvagio le servirà per rimanere in vita, in cui si dimostrerà più intelligente degli altri. Gli inevitabili cartelli conclusivi che finiscono di raccontare la storia, al pari poi dei titoli di coda, tutti scritti in caratteri cambogiani (ma la produzione è 100% americana) daranno il colpo definitivo all’operazione.

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