Two Weeks To Live (prima stagione): la recensione

Maisie Williams, Arya in Game of Thrones, torna in tv come protagonista di Two Weeks to Live, serie che spreca le possibilità di approfondimento psicologico in favore di una risata forzata e ripetitiva

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Two Weeks To Live (prima stagione): la recensione

Un bel tacer non fu mai scritto. Vi sarà forse capitato di sentire uno dei vostri cari pronunciare tale frase, a ribadire l’importanza del silenzio. Importanza che Gaby Hull, mente creatrice di Two Weeks To Live, avrebbe forse dovuto tenere in maggior conto durante la stesura delle sei puntate che compongono la serie britannica disponibile dal 26 dicembre su Sky Atlantic e NOW.

Intendiamoci: le basi gettate dal primo episodio sono esilaranti. La giovane Kim (Maisie Williams) è cresciuta in semi-isolamento nel nord della Scozia, costantemente monitorata dall’iperprotettiva madre Tina (Sian Clifford). Quando la ragazza scappa di casa per assaporare il mondo, si imbatte in Nicky (Mawaan Rizwan) e Jay (Taheen Modak), due fratelli gioviali e immaturi che approfittano della sua ingenuità per farle credere che la Terra abbia i giorni contati (da cui il titolo della serie).

Peccato che la loro burla innocente diventi l’innesco di una catena di eventi del tutto imprevedibili: convinta di avere il tempo contro, Kim scappa dai suoi nuovi amici, determinata a vendicare la morte del padre avvenuta molti anni prima.

Il riso abbonda…?

Come accennavamo, i movimentati primi minuti della serie offrono terreno fertile a più di una risata; e, a essere onesti, questa stagione d’esordio di Two Weeks To Live risulta complessivamente assai godibile. Alla verve comica si unisce infatti un’ottima coreografia delle non rare sequenze d’azione, che mantengono l’asticella dell’adrenalina ben sopra la media dei prodotti comedy.

Eppure, c’è qualcosa che appesantisce la frizzante giovinezza di questo racconto tutto british: un’ossessiva ricerca della gag verbale, una logorrea ammiccante che vuol strappare la risata a ogni costo, anche a scapito del pathos. Il poco incisivo doppiaggio italiano non contribuisce a migliorare la situazione, seppellendo sotto una guitta coltre di beceraggine le nuance delle interpretazioni originali.

C’è una fondamentale linea di demarcazione tra il non prendersi sul serio e il non prendere nulla sul serio. Purtroppo, Two Weeks to Live spesso privilegia la seconda via a svantaggio della prima, invalidando le ambizioni drammatiche incarnate da un personaggio come Kim.

La sua inesperienza del mondo è infatti un mero motore che non diviene mai reale germe di disagio. Anzi, salvo per qualche ingenuità esasperata (la scena sui tacchi), il modo che la ragazza ha di rapportarsi alle sue nuove conoscenze non sembra affatto rispecchiare anni di isolamento.

Two Weeks To Live

Le colpe dei padri

Quel che è peggio, le potenzialità conflittuali del rapporto tra Kim e Tina si sgonfiano miseramente sotto l’ago di una comicità insistita tutt’altro che pungente. Nessuno pretende che una comedy divenga tragedia greca, sia chiaro; tuttavia, dispiace vedere sprecate le possibilità di approfondimento psicologico in favore di una risata forzata e ripetitiva.

La ripercussione, sui figli, delle azioni (buone o cattive che siano) dei genitori è una tematica che serpeggia lungo tutta la stagione. Riguarda, senza voler svelare troppo, buona parte dei personaggi principali, seppur in declinazioni assai diverse. Con un po’ più d’attenzione, avrebbe potuto colpire più a fondo il cuore dello spettatore, guidandolo verso il finale con un potente bagaglio emozionale.

La speranza è che, nell’eventuale seconda stagione, Two Weeks To Live sappia correggere la propria traiettoria, epurandosi dal surplus di battute fiacche e mettendo in risalto i propri punti di forza: l’originalità dell’intreccio, il talento dei suoi interpreti (Maisie Williams ormai paladina della vendetta giovane) e la varietà dei suoi combattimenti.

In attesa che la lezione venga imparata, ci limitiamo a un tiepido applauso per un prodotto di buona fattura affossato da un umorismo spesso infantile e dozzinale, a dimostrare come non sempre l’ottima qualità degli ingredienti garantisca un risultato all’altezza.

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