Twin Peaks 3×10 “The Return – Part 10”: la recensione

Twin Peaks continua a raccontare orrori celati e silenzi grotteschi: nonostante tutto, rimane la grande visione di David Lynch

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Spoiler Alert
Vive di silenzi immoti e di esplosioni atomiche questo Twin Peaks, atto terzo. Di pause grottesche e di orrori celati, di una vaga malinconia che copre tutto come un velo e ci dice che, una volta calato il sipario, non ci sarà ritorno. La particolarità di Twin Peaks è che funziona secondo canali interpretativi tutti suoi. Nel momento in cui il cardine di ogni critica è il paragone inevitabile con ciò che di simile è stato realizzato fino a quel momento, la terza stagione della serie di David Lynch si svincola da ragionamenti di questo tipo. Dal punto di vista narrativo, autoriale, produttivo rappresenta un unicum che non ha precedenti e che non può avere successori. Perfino il confronto con le prime due stagioni incontra uno stallo nel momento in cui la pausa pluridecennale crea un solco insuperabile.

E ci sono dei momenti in cui davvero viene da chiedersi se ne vale la pena. Se vale la pena barattare la visione talvolta esasperante di Lynch, il suo metodico e inarrestabile insistere sulla storyline di Dougie, sui silenzi imbarazzati, sull'ermeticità consapevole dell'intreccio. Scambiarla con qualcosa di più coeso e simile ai canoni della narrazione televisiva – comunque di altissima fattura – contemporanea. La risposta, anche alla luce di quanto visto in The Return – Part 10, che segna l'inizio della seconda parte di stagione, è un secco no. Tra altri 25 anni, immaginando di guardarci indietro e vedere il quadro completo di Twin Peaks, è la visione di Lynch quella che ci aspettiamo di trovare, non l'omaggio-sequel di qualcun altro. Guardacaso, è proprio ciò che siamo riusciti ad avere.

Non sempre è facile, perché davvero la vicenda di Dougie, che per certi versi avremmo visto come esaurita già al quarto episodio, continua ad andare avanti e a tenere banco. E diventa addirittura il perno del conflitto principale dell'episodio, nel momento in cui Todd, incalzato dal Cooper malvagio, utilizza come intermediario Anthony per scatenare la vendetta dei fratelli Mitchum contro il nostro Dale. Non avvertiamo mai davvero senso di pericolo dietro la vicenda, e sono soprattutto le punture grottesche e dare vivacità alle scene. Rimane l'attrazione di Janie per Dougie (Naomi Watts più sensuale in quei venti secondi che in dieci episodi di Gypsy) e la ridicola scena di sesso che sembra riprendere un'idea di Weekend con il morto.

Ma anche altri momenti sopra le righe, come la svampita – eppure stranamente inafferrabile – Candie, che colpisce Rodney Mitchum con un telecomando mentre cerca di uccidere una mosca. Sandie, Mandie e Candie: come possono essere percepiti come reali personaggi di questo tipo? Allora la scena li lascia emergere secondo una visione d'insieme, quasi elementi di un arredamento che contribuiscono alla composizione della scena.

È un episodio carico di “uomini che odiano le donne”, come spesso la serie è stata in passato e come d'altra parte il cinema di Lynch ha raccontato (Velluto Blu). Richard, nipote di Benjamin e Sylvia, e quindi figlio di Audrey, in un primo momento uccide Miriam che minacciava di denunciarlo alla polizia (molto bello il particolare della fuga di gas senza farci vedere l'esplosione), va a casa della nonna e le ruba del denaro e dei preziosi. Il tutto sotto lo sguardo sconvolto di Johnny e la cantilena “Hello Johnny, how are you today?”. Per chi vuole vedere l'ennesimo riferimento a Kubrick della stagione, qui c'è qualcosa di Arancia Meccanica. Ma insomma, quel che emerge è il quadro di un personaggio non banalmente cattivo e stupido, ma intimamente malvagio e privo di compassione. Si rifà sotto una teoria passata circa la sua possibile parentela e il motivo della sua crudeltà.

Tra gli altri abusi dell'episodio ovviamente c'è anche quello di Steven Burnett ai danni di Becky. Mentre si alimenta il mistero dietro il messaggio ricevuto da Diane, che suscita i sospetti di Gordon e Albert, praticamente abbiamo la conferma di varie attività del facoltoso – a quanto pare – Cooper-BOB, che negli ultimi anni ha avuto anche a che fare con l'installazione della black box a New York. Forse Experiment, la creatura oltre l'universo, sta cercando di richiamarlo mentre lui desidera rimanere nel nostro mondo?

Gordon Cole disegna su un foglio una renna con delle corna enormi e strane macchie sul corpo, mentre un braccio si avvicina minaccioso. Su possibili interpretazioni non ci pronunciamo, diciamo solo che ha qualcosa dello stile molto stilizzato di The Angriest Dog in the World e di Dumbland. L'apparizione di Laura Palmer alla porta, ripresa da una scena di Fuoco cammina con me, è un colpo al cuore. Riesce a farci saltare sulla sedia anche se nel montaggio lo sguardo di Cole e quello di Laura sono disallineati. Normalmente dovremmo essere gettati fuori dalla scena, e invece quello che vediamo è più viscerale e forte che mai.

“Laura is the one”, dirà più tardi Margaret, riprendendo una frase già pronunciata nella serie classica. Quello che di fatto è un monologo della signora Ceppo pronunciato a Hawk e a tutti noi si interseca idealmente con il testo della canzone intonata da Rebekah Del Rio nel finale di episodio.

“Hawk, electricity is humming, You hear it in the mountains and rivers. You see it dance among the seas and stars and glowing around the moon. But in these days, the glow is dying. What will be in the darkness that remains? (…) Watch and listen to the dream of time and space. It all comes out now, flowing like a river. That which is and is not. Hawk, Laura is the one.”

L'elettricità è una delle forze che, insieme alla musica potremmo dire, segnano l'agire degli spiriti benevoli e malvagi nel mondo. Di mari e corpi celesti abbiamo già parlato in precedenza sia da un punto di vista astronomico che simbolico. L'idea di splendore evocata dal termine “glow” ci richiama evidentemente al globo dorato con cui, forse, la Loggia Bianca si assumeva il compito di vegliare su Laura e di sconfiggere il male. Ma quello splendore sta morendo e l'oscurità avanza. Forse la chiave per la salvezza, come tante volte in passato, si nasconde in un sogno fuori dal tempo e dallo spazio.

Il silenzio della telefonata scivola placidamente sullo scenario atteso della Roadhouse, dove Rebekah Del Rio canta No Stars, indossando qualcosa che ovviamente richiama i motivi del pavimento della stanza rossa. La cantante era già apparsa in Mulholland Dr. dove aveva cantato Llorando. Qui – c'è anche Moby – intona una canzone d'amore perduto che ricorda un tempo lontano, quando ancora le stelle brillavano.

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