Twin Peaks 3x08 "The Return - Part 8": la recensione

La visione di David Lynch esplode senza limiti nell'episodio più surreale di Twin Peaks, creando quella che è già una delle puntate più importanti della storia della televisione

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Spoiler Alert
Twin Peaks 3x08 "The Return - Part 8": la recensione

Questo è l'inizio e la fine di ogni cosa. È il segno che contiene tutti i simboli passati, presenti e futuri, il filtro surreale che dà forza e significato al mondo. Questo segno è un'esplosione, il Big Bang personale di Twin Peaks secondo la visione sperimentale, eppure così strutturata, di David Lynch. Praticamente si tratta della Genesi di una mitologia in divenire, con i suoi angeli e i suoi demoni, capace di traslare in forme umane conflitti forse celestiali, forse alieni. In ogni caso figure e composizioni sempre riconducibili a una visione organica e autoriale, non del tutto esplicabile, ma comunque di immenso fascino e di assoluto valore. The Return – Part 8 non è solo l'episodio più sperimentale della storia di Twin Peaks, ma è anche uno dei migliori episodi della storia della televisione.

In viaggio su “strade perdute”, il Cooper malvagio e Ray Monroe discutono sulla loro prossima destinazione. Cooper mente a Ray circa le sorti di Darya e si prepara a uccidere anche l'altro socio. Ray tuttavia lo anticipa e, apparentemente, lo uccide. Dall'ombra a quel punto emergono spiriti evanescenti della Loggia Nera, che circondano Cooper compiendo un misterioso rituale nel quale il volto ghignante di BOB appare rivelandoci che la minaccia è tutt'altro che sconfitta. Ray più tardi chiama Philip (Jeffries, presumibilmente) informandolo dell'accaduto. Dale è ancora vivo.

L'orrore degli spiriti della Loggia Nera e del woodsman che vedremo poi, affine all'uomo dietro il locale nella spaventosa scena di Mulholland Drive, si manifesta nelle vene che collegano un'America ferita e sofferente, marchiata per sempre – come vedremo – dagli esperimenti atomici. Queste vene sanguinanti sono strade, arterie silenziose che corrono nel buio di una notte senza punti di riferimento. Sono le “strade perdute” percorse nell'omonimo film del 1997 che si avvaleva delle musiche di Trent Reznor e dei Nine Inch Nails, che qui appaiono, in un ennesimo autoriferimento lynchano, come gruppo alla Roadhouse. È una performance che, a differenza delle precedenti, non ha il compito di agevolare l'uscita di scena e accompagnare i titoli di coda, ma segna la cesura nella scomposizione fondamentale dell'episodio tra un prima e un dopo.

New Mexico, 16 luglio 1945. Trinity, primo test nucleare della storia. La regia incalza con sinistra inquietudine il fungo atomico che si solleva nel deserto, rivelando un senso di devastazione prettamente simbolico. L'orrore della cicatrice sul volto degli Stati Uniti svela, come nel paradigma lovecraftiano degli Antichi, un orrore segreto e inconcepibile, forse sopito, scollegato dai desideri e dalle aspirazioni del mondo. Almeno fino a quel momento. La camera striscia nelle profondità della nube grigia, e qui svela un Male che si annida in una sacca separata dalla nostra dimensione.

La scelta di Threnody For The Victims Of Hiroshima di Penderecki come musica in sottofondo è perfetta. Un canto funebre di violini stridenti, già utilizzato da Kubrick nel suo Shining, che sintetizza per simboli uditivi il grido del mondo che viene squarciato e violentato in quel momento. Se l'orrore ha una musica, è questa. Funziona perché, esattamente come in Shining, stabilisce un connotato orrorifico che investe l'ambiente in sé, non solo le persone che lo abitano o i fatti che accadono. È il mondo a essere corrotto e a far marcire tutto ciò che vi abita. Questo è un elemento centrale in Twin Peaks.

L'esplosione atomica, come la chiave di Mulholland Drive o il passaggio dietro le quinte di INLAND EMPIRE, è il “momento narrativo” che scompone i canoni di una narrazione ordinaria, o almeno grottesca come è tipico di Twin Peaks. È la porta di accesso a un linguaggio sperimentale, ma la differenza in questo caso è che ne è anche la causa primaria. A quanto pare, questa è davvero la Genesi della lotta tra la Loggia Bianca e Nera nel nostro mondo. La hybris dell'uomo ha causato tutto questo. In un momento che ha riferimenti a Lovecraft, come abbiamo detto, ma anche alla mitologia di Stephen King (c'è molto della nascita di IT), ci viene narrata l'origine di BOB, una cellula impazzita in un corpo mostruoso, forse il modo in cui l'entità della Loggia Nera, la stessa che veniva monitorata a New York, si interfaccia con la nostra dimensione.

Quindi dall'Oltreverso al nostro universo, per compiere il male e nutrirsi. Ma c'è anche il bene, o la luce. O almeno così vogliamo interpretare quel segmento del sogno che presumibilmente si svolge nella Loggia Bianca. Rivediamo il grammofono della prima puntata, il Gigante che osserva in uno scenario metateatrale di altissima impronta lynchana l'orrore che si va compiendo, e una donna che accoglie un frammento di luce. Un globo dorato che viene rilasciato nel mondo, e da cui emerge il volto di Laura Palmer, decenni prima della sua nascita (ma il tempo non ha significato), predestinata ad essere veicolo di qualcosa. Evidentemente lo scenario ha qualcosa di Eraserhead, ma il valore psicanalitico del sogno (tra i film preferiti di Lynch c'è anche 8 e mezzo di Fellini) in questo caso lascia spazio all'emergere della mitologia.

Qui il bene e il male plasmano loro stessi per definire porzioni del mondo che verrà, e tutto il resto del segmento ci parla di ciò. Lo fa da una prospettiva negativa. Ritorna – siamo nel 1956 – il “convenience store” di cui parlava l'uomo da un braccio solo nel classico Twin Peaks (“We lived among the people. I think you say, convenience store. We lived above it”), e c'è forse un collegamento con la scena “Room above the convenience store” contenuta nei Missing Pieces. Qui il Nano afferma “from pure air we have descended”. Forse una chiave per capire le azioni e le motivazioni del Woodsman, come viene definito nei titoli di coda, che tramite una stazione radio diffonde un singolare messaggio:

This is the water. And this is the well. Drink full and descend. The horse is the white of the eyes and dark within.

Forse l'acqua è la garmonbozia, e quel punto è il pozzo, il passaggio dove gli spiriti possono passare per abbeverarsi. Due giovani negli anni '50 pagano, tra gli altri, le conseguenze di ciò che è accaduto. Una mostruosa rana-insetto entra nella bocca della ragazza che dorme. È l'inizio di un percorso le cui conseguenze sono ancora visibili circa sessant'anni dopo. Quanto di questa mitologia sia conosciuta o sconosciuta ai protagonisti è discutibile. Certo le indagini legate alla Blue Rose e i macchinari a New York ci dicono che qualcosa deve esserci, e forse l'immagine del fungo atomico nell'ufficio di Gordon Cole non è casuale.

David Lynch si pone ancora una volta come il custode, ormai alla fine del suo percorso professionale, di una tradizione avanguardistica prima che sperimentale. Il metateatro dell'immagine che riflette su se stesso e racconta le proprie strutture, la chiave per il passaggio verso un “altrove” cinematografico e televisivo. Come lo specchio di Le sang d'un poete di Jean Cocteau che si tramuta in una vasca d'acqua, abbiamo scene surreali spiate attraverso serrature che ci raccontano qualcosa anche sull'occhio di chi sta guardando, che è il nostro ma anche quello di Lynch.

Twin Peaks destruttura le forme tradizionali del racconto, ma ciò che lo eleva davvero è come la ricomposizione di queste viene ricompresa nel processo narrativo. Non è pura astrazione, non è pura devastazione, c'è sempre l'idea di una composizione superiore ai simboli e ai silenzi. Quindi il fascino del momento, ma anche il desiderio di sviscerarlo e comprenderlo. Trovando il codice segreto che la storia utilizza per raccontare il suo mondo.

Continua a leggere su BadTaste