Tutto il mio folle amore, la recensione | Venezia 76

Tutto il mio folle amore di Gabriele Salvatores è un picaresco road movie intriso di realismo magico, che riscatta solo in parte uno script fiacco

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Nel panorama cinematografico italiano, Gabriele Salvatores ci ha sempre tenuto a dire la sua cantando fuori dal coro, andando impavidamente incontro alle critiche di un sistema poco avvezzo - almeno fino a qualche anno fa - alle incursioni in territori inesplorati; basti pensare a esperimenti come NirvanaIl Ragazzo Invisibile, più o meno riusciti tentativi di solcare le impervie acque della fantascienza e del supereroistico. Ora il cineasta vincitore dell'Oscar nel 1992 torna su terreni più familiari al pubblico nostrano con Tutto il mio folle amore, presentato in questi giorni al Festival di Venezia.

Una storia semplice - scritta da Umberto Contarello Sara Mosetti partendo dal romanzo Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas  - la cui originalità fa capolino attraverso la bizzarra messinscena di Salvatores, che impregna il road trip improvvisato del cantante itinerante Willi (Claudio Santamaria) e del figlio autistico Vincent (il bravissimo esordiente Giulio Pranno) di un realismo magico che solleva quasi sempre il film dal rischio di scivolare nel nonsense più sconclusionato.

Una colonna sonora che vede una massiccia - sebbene non esclusiva - presenza di brani di Domenico Modugno contribuisce ad accompagnare il picaresco viaggio di formazione di Vincent, non a caso chiamato così in omaggio alla canzone di Don McLean dedicata a Van Gogh. Alcuni tra i pezzi vengono reinterpretati dal Willi di Santamaria, che li ammanta di una malinconica patina decadente perfettamente in linea con la natura del personaggio. Onore al merito, inoltre, di aver scelto per titolo un verso di quella che è, forse, la più struggente ballata di Modugno, quella Cosa sono le nuvole? scritta da Pasolini e già oggetto di felici riletture.

Non mancano i cliché narrativi più usurati sulla disabilità, ma bisogna riconoscere a Salvatores, Contarello e Mosetti di aver costruito svariati momenti godibili, forieri di sorrisi e onesta commozione scevra da facili ricatti emotivi; non bastano tutte queste buone intenzioni e i tocchi onirici a garantire solidità a uno script frammentato e privo di uno sviluppo climatico in grado di aggiudicarsi la costante attenzione dello spettatore. Troppe le domande rimaste in sospeso (sin dall'inizio, ci chiediamo come e perché Willi sia capitato in casa dell'ex Elena, interpretata da Valeria Golino).

Certo non giova al film un epilogo raffazzonato e per certi versi inspiegabile, alla luce della costruzione psicologica dei protagonisti e, soprattutto, dell'esagerata generosità del Mario di Diego Abatantuono, tenero padre adottivo di Vincent che sembra essere l'unico a poter comunicare in modo efficace col ragazzo; restiamo quindi, perplessi seppur non del tutto delusi, di fronte all'ennesimo esempio di buoni ingredienti lasciati a macerare senza aver trovato una ricetta all'altezza delle proprie singole qualità, mescolati per dar vita a una pietanza il cui bizzarro sapore ci stucca più di quanto non ci entusiasmi.

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