Tutti a parte mio marito, la recensione

Tutti a parte mio marito parte da una premessa accattivante: cosa succede quanto una donna di mezz’età non fa più sesso con un marito che ama? Caroline Vingal porta avanti il desiderio sessuale di Iris senza sconti, con onestà drammatica e soprattutto facendo ridere senza ridicolizzare.

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La recensione di Tutti a parte mio marito, al cinema dal 21 dicembre

Se c’è una cosa che il cinema francese sa fare bene è parlare di sentimenti e sessualità. Che si tratti di una questione culturale o di un’abitudine di mercato (dato un pubblico pronto a recepire tali tematiche), un film all’apparenza semplice come Tutti a parte mio marito di Caroline Vignal sembra quasi impossibile per il cinema italiano: sboccato, divertito, intelligente e dotato di un pizzico di misurata follia nella messa in scena. Il tutto sigillato dall’esuberante personalità attoriale di Laure Calamy, ad abbattere le barriere tra il cinema d’autore e quello di più largo consumo.

Tutti a parte mio marito parte da una premessa accattivante: cosa succede quanto una donna di mezz’età non fa più sesso con un marito che ama? La frustrazione sessuale di Iris diventa così l’incipit e insieme l’unica idea portante del film e che Caroline Vingal porta avanti senza sconti, con onestà drammatica (sì, c’è tanto sesso extracoiniugale) e soprattutto facendo ridere senza ridicolizzare (che è ciò che distingue una risata consapevole da una che minimizza, si vergogna).

Iris (Laure Calamy) è madre di due figlie, ha un marito, un buon lavoro. La sua vita si divide tra la casa e lo studio dentistico, la metro di Parigi e qualche ricevimento scolastico. Proprio durante un’attesa a scuola, Iris parla della sua frustrazione sessuale con un’amica e una sconosciuta, ascoltandola, si permette di consigliarle: “fatti un’amante”. Quel personaggio non lo rivedremo più, ma da quel momento la vita di Iris cambia a suon di notifiche di una app di incontri che apre il vaso di Pandora del suo desiderio. Una mappa del corpo e del piacere per rivedere il modo in cui affronta la vita e le relazioni, ma soprattutto per riscoprire sé stessa.

Seguiamo così Iris - che tutti i suoi amanti chiamano “Isis”, probabilmente per un errore di digitazione di Iris nella app che, mai spiegato, è ancora più divertente - nel suo tour de force sessuale, vestita di rosso passione e amabilmente folle per come si esalta genuinamente di fronte alla bellezza del piacere e a quello di sentirsi osservata. Un meccanismo narrativo che si ripete (forse l’unica pecca del film), ma che Vignal riesce a variare grazie ad alcune trovate: gli uomini immaginari che parlano ad Iris in metro e un piccolo ma giusto momento musical.

L’immaginazione, messa in scena, diventa così la chiave che Tutti a parte mio marito trova per esprimere in modo diretto ed efficace la sua personalità comica e per raccontare la protagonista oltre i meri eventi che questa vive. Laure Calamy è assolutamente perfetta per il ruolo, credibile ma autoironica al punto giusto e capace di esplosioni di follia naive e - qui sta il discrimine per la serietà del discorso - una consapevolezza femminile che non cede a nulla. Nemmeno alle figlie (per niente scontata, in questo senso, la scena del pranzo con gli amici). 

Tale sforzo avrebbe rischiato di vanificarsi in un finale scontato, e invece Tutti a parte mio marito gioca anche lì al suo meglio: con la semplicità di chi sa dire qualcosa di molto serio.

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