Tutta la luce che non vediamo, la recensione

Nella ricerca spasmodica di emozioni, Tutta la luce che non vediamo perde ogni sensibilità di sfumatura in un racconto rozzo e superficiale

Condividi

La nostra recensione di Tutta la luce che non vediamo, miniserie di Steven Knight e Shawn Levy disponibile su Netflix dal 2 novembre

Vedere non è soltanto un atto fisico. Vedere è comprendere, percepire, empatizzare. Parimenti, per comunicare non basta mettere in sequenza una serie di vocaboli. La comunicazione, in tutte le sue forme, è l'estensione dell'atto del "vedere", che non passa necessariamente attraverso gli occhi. Tramite le parole, la musica, l'arte e il cinema, cerchiamo di comunicare ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che viviamo. Quando un'opera riesce in questo compito, crea un ponte tra l'autore e lo spettatore, permettendo a quest'ultimo di vedere attraverso gli occhi del primo. Ma cosa succede quando questo ponte crolla, quando la comunicazione fallisce?

Tutta la luce che non vediamo avrebbe dovuto essere un viaggio profondo nel cuore dei suoi personaggi, nell'oscurità e nella luce delle loro esistenze, un'esplorazione di come percepiamo e comunichiamo il mondo che ci circonda, specialmente quando questo mondo è offuscato da guerre, paure e pregiudizi. Eppure, ironicamente, la sontuosa miniserie di Steven Knight e Shawn Levy sembra incapace di "vedere", di comunicare efficacemente la profondità e la complessità del suo materiale sorgente (il romanzo di Anthony Doerr vincitore del Pulitzer). Invece di un delicato affresco di emozioni e sensazioni, ci troviamo di fronte a una rappresentazione fredda, distante e mal scritta. La luce del romanzo si perde nell'oscurità di un adattamento facilone, un pastiche cacofonico che lascia lo spettatore nell'ombra, in cerca di comprensione e empatia che la serie non è in grado di offrire.

La storia in breve

Tutta la luce che non vediamo racconta le storie intrecciate di Marie-Laure (Aria Mia Loberti), una ragazza francese cieca, e Werner (Louis Hofmann), un giovane soldato tedesco, durante la Seconda Guerra Mondiale. Marie-Laure cresce a Parigi con suo padre (Mark Ruffalo), un impiegato del Museo di Storia Naturale; dopo la presa di Parigi da parte dei nazisti, i due fuggono nella città di Saint-Malo, dove si rifugiano presso l'abitazione del prozio di Marie-Laure, Etienne (Hugh Laurie, gigantesco in questa prova).

Parallelamente, Werner cresce in un orfanotrofio tedesco con la sorella Jutta (Luna Wedler). La sua abilità con le apparecchiature radio gli garantisce un posto in una prestigiosa accademia militare nazista e, successivamente, nel corpo armato tedesco. Le loro vite si incrociano quando Werner, nella Saint-Malo occupata dai nazisti e bersagliata dai bombardamenti alleati, viene incaricato di rintracciare trasmissioni radio della Resistenza.

Mancanza di sfumature

Se il romanzo originale giocava sulle sfumature e le sottigliezze, vedere la serie equivale a restare abbagliati da un faretto sparato in faccia, privo di qualsiasi sfumatura. La narrazione, pur tentando di mantenere le due trame parallele del libro, si perde in inutili dettagli, sminuendo l'essenza stessa della storia. La scelta di Knight di semplificare e generalizzare la complessità morale di Werner lo rende un personaggio noioso e monodimensionale, e l'intenso carisma di Hofmann viene sprecato in un ruolo che non gli rende giustizia.

Non va tanto meglio a Marie-Laure, presentata da subito come figura ammantata d'innocenza ma, al contempo, pregna di una curiosità brillante e di un'intelligenza quasi scaltra. Difetti? Per carità. Non c'è spazio per i chiaroscuri in questa narrazione sovraesposta, né possibilità di crisi per la nostra immacolata protagonista, tanto determinata da risultare meccanica. Impossibile empatizzare appieno con un personaggio tanto granitico, a dispetto della pur buona prova dell'esordiente Loberti. Anche la rappresentazione visiva della percezione di Marie-Laure del mondo resta un capitolo totalmente inesplorato, perfetta espressione della superficialità di un adattamento senz'anima.

Troppe spiegazioni

L'estremo didascalismo della sceneggiatura, impegnata convulsivamente a spiegare allo spettatore piuttosto che a suggestionarlo, trova incarnazione nel villain Reinhold von Rumpel (Lars Eidinger). Piuttosto che permettere alla storia di dispiegarsi naturalmente, Von Rumpel viene spesso utilizzato come mezzo per offrire spiegazioni verbali e dirette agli spettatori, rendendo il personaggio e i suoi intenti troppo espliciti e quasi caricaturali. Invece di fornire al pubblico la libertà di interpretare e collegare i punti, la narrazione si fa guida prepotente, compromettendo la ricchezza dell'esperienza di visione.

A proposito di Reinhold, uno dei momenti che più mette alla prova la sospensione dell'incredulità dello spettatore avviene nei primi minuti della serie. In una scena con un cameriere francese, l'ufficiale inizia inopportunamente a parlare dell'Olocausto: scelta narrativa forzata e inverosimile, considerando il contesto storico e la natura segreta e delicata dell'argomento in quel periodo. Un dialogo non solo fuori luogo e stonato, ma che destabilizza l'immersione dello spettatore nella trama, rendendo difficile accettare la realtà rappresentata senza un senso di scetticismo.

Il (non) potere del suono

Ulteriore tragico scivolone è la colonna sonora del giustamente consacrato James Newton Howard, che qui però rasenta un'ossessività patetica e stucchevole. Invece di sostenere le scene, la musica tende a soffocare e dominare l'azione, distruggendo la sottigliezza del tono e dell'atmosfera. È come se i creatori non avessero avuto piena fiducia nella capacità della storia di parlare da sola, sentendo il bisogno di sovraccaricare ogni momento con una melodia intrusiva e melensa.

Tutta la luce che non vediamo si limita a ridurre l'alto potenziale di una parabola sulla comunicazione a luoghi comuni e cliché di guerra. Ne è ennesima prova la trattazione della radio, sulla carta potente fonte di connessioni tra personaggi e storie. Nella miniserie, l'apparecchio è ridotto a semplice oggetto, spogliato della profondità e della complessità di significato che meriterebbe. Levy e Knight pensano di potersi riscattare attraverso l'immagine di un personaggio secondario che abbraccia letteralmente una radio per mostrare il suo apprezzamento, esempio lampante di come la serie si adagi su stratagemmi rozzamente sbattuti in faccia piuttosto che sulla raffinatezza dei sottotesti.

In cerca di penombra

Nelle sue esplicite intenzioni, Tutta la luce che non vediamo avrebbe dovuto muoversi sul confine tra luce e ombra, catturando le sfumature dell'esperienza umana in tempo di guerra. La luce, nel suo stato più puro, può essere frammentata in un arcobaleno di colori, ognuno a rappresentare un aspetto, un'emozione, una corda dell'anima. Invece di giocare con questi frammenti, la miniserie abbacina lo spettatore con un raggio crudo e diretto, priva di sfumature sottili.

È come se, nella sua convulsa voglia di brillare intensamente, avesse dimenticato il fascino delle zone d'ombra, dove risiedono verità nascoste e sentimenti più profondi. In questo tentativo di illuminare ogni angolo, la serie perde l'opportunità di abbracciare l'intero spettro della condizione umana, lasciandoci affamati della fine magia delle penombre.

Continua a leggere su BadTaste