Tua per sempre, la recensione

Al terzo film Tua per sempre perde la sua trama originaria e prende consapevolezza del suo successo e quindi del suo potere formativo

Critico e giornalista cinematografico


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Tua per sempre, la recensione

Arrivato al terzo capitolo la serie iniziata con Tutte le volte che ho scritto ti amo cambia ancora. Era cambiata al secondo film, senza più Susan Johnson alla regia, dimenticando la sua natura epistolare e optando per il romanzetto di formazione, e cambia ancora adesso. Non c’è più Sofia Alvarez a scrivere e la storia sembra mancare di un centro, affiancando episodi con un intreccio debolissimo e più la voglia di raccontare la maturazione di una consapevolezza. Rimane un romanzo di Jenny Han alla base di tutto.
Nel chiudere la trilogia (per il momento) Tua per sempre sembra riconoscere la sua natura industriale, di primo grande successo teen comedy con una protagonista di origini asiatiche. Parte infatti in Corea, con il ricongiungimento della protagonista con le proprie origini (anche sentimentali).

La prima grande rappresentazione popolare di successo delle nuove americane chiude con un grande ritorno alla base dello spirito americano di selezione della specie, competizione. Chiude con l’identificazione tra il successo professionale e il successo di una vita. Il montaggio musicale con Wannabe delle Spice Girls infatti identifica totalmente l’ammissione in un college prestigioso con il successo delle proprie aspettative per un domani e (nella trama) con il mantenimento dell’amore.

In 120 minuti così estenuanti da dare l’idea che qualcuno abbia deciso la durata del film come prima cosa e poi qualcun altro abbia dovuto riempire quel minutaggio, allungando il brodo come possibile, la coppia protagonista viaggia verso il meno convenzionale degli esiti per una commedia romantica. Non è infatti l’affermazione della capacità di rimanere insieme nonostante tutto il punto di Tua per sempre ma l’importanza della propria individualità. Se sacrificio e dolore sono sempre state le forze in atto nel romanticismo femminile a tinte forti, l’unità di misura tramite la quale in quei racconti si misura l’intensità dell’amore, qui invece c’è un’ammirabile ambizione di unire la solidità del sentimento alla voglia di pensare a se stessi e ai propri desideri individuali.

E questo, senza che ci sia da stupirsi, fa il paio con la figura di Peter, fidanzato della protagonista e vero cripto-protagonista. È lei che ha il massimo delle battute e il maggiore minutaggio in scena, ma è Peter che compie un arco narrativo, matura consapevolezze e alla fine del film è cambiato rispetto all’inizio. Come molto cinema che strizza l’occhio ai nuovi movimenti femministi in Tua per sempre la sua parabola è quella di un uomo che impara a stare accanto ad una ragazza aiutandola ad esprimere il suo pieno potenziale e diventare chi vuole essere.
L’opposto del sacrificio femminile diventa così la creazione di una rete di rapporti che aiutano ad emergere e realizzarsi, mentre il problema è mantenere nel frattempo la sicurezza e solidità dei sentimenti.
Una tesi chiara per un film che fa inutilmente il doppio della fatica necessaria per affermarla.

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