In un deserto diverso da quello di
Mine, roccioso e scosceso invece che piatto e sabbioso, un altro personaggio americano vive un’avventura italiana, impossibilitato a fuggire e costretto ad affrontare i propri demoni. Stavolta il concept da B movie ideato da
Roberto Recchioni e
Mauro Uzzeo, ma poi sviluppato assieme allo stesso regista Ivan Silvestrini con il contributo di un team di sceneggiatori di Sky (che nel progetto ha investito), ha a che vedere con una macchina del futuro prossimo, un SUV improntato alla sicurezza, così “sicuro” che una volta chiuso è impenetrabile. Dentro questa macchina, chiamata
Monolith, una madre per errore chiude suo figlio piccolo, lasciando dentro tutto il necessario per riaprire l’auto. Sono nel mezzo del deserto e la temperatura non fa che aumentare.
Rispetto al cinema italiano di genere recente Monolith è immediatamente differente, e prima di tutto lo è per scrittura. Buona parte del team creativo viene dai fumetti, e fin dalle prime scene è subito evidente di esser di fronte ad una storia impostata da narratori abili (sia Recchioni che Uzzeo scrivono per Bonelli), mentre l’auto che è al centro di tutto, il mostro gentile così premuroso da diventare una trappola, è disegnata da Lorenzo Ceccotti in arte LRNZ (anch’egli autore, tra le altre cose, di fumetti Bonelli) con occhi sottili come un demone dal pelo nero opaco. Peccato che il sound design non abbia la medesima raffinatezza.
Partendo da questi presupposti sarebbe stato facile fare del film una favola nera allegorica su un mostro tecnologico che mangia un bambino, per fortuna
Monolith non è questo, non è un film sulla guerra tra uomini e tecnologia ma un film di tensione che massacra la propria protagonista per ricostruirla. E, nonostante non tutto sia sempre intonato, lo fa con un’economia di movimenti e con una generale asciuttezza che sono encomiabili.
Ideato come un thriller e girato con l'ottima idea di strizzare l’occhio all’estetica della vittima combattiva degli slasher (canottiera, ferite, sporcizia e disperazione), ma asciugando questa figura del sex appeal che solitamente prevede, Monolith si spende molto nel dare un background di grande plausibilità alla sua storia, nel creare ragioni e paure della protagonista da sfruttare come un’arma durante la parte centrale, quella della lotta per riaprire una macchina indistruttibile che diventa sempre più il delirio di una madre.
Dopo una prima parte secca e impeccabile però
Monolith vira, appesantendosi di scena in scena. Invece che correre contro il tempo, passeggia, si ferma a riflettere e poi riparte troppe volte. Il risultato è un ritmo claudicante che giova molto alla deviazione visivamente sorprendente dell’aeroporto (qualcosa che non avremmo mai trovato in un film americano e non sanno cosa si perdono), ma che nel resto della storia, specie avvicinandosi al finale, risulta più fastidioso e fuori luogo. Purtroppo non aiuta la causa la protagonista,
Katrina Bowden, per nulla in grado di reggere un film simile. Perfetta come madre ripulita ed ex rockstar, non è mai credibile come corpo cinematografico di genere, troppo goffa in ogni movimento e legnosa nelle scene più concitate (quando colpisce la macchina per cercare di distruggerla i suoi colpi sembrano carezze, quando fuma sembra non aver mai tenuto una sigaretta in bocca).
Monolith fa indubbiamente di tutto per tramutare le sue difficoltà in virtù, ed è ammirabile la maniera in cui una situazione statica (un’auto ferma nel deserto) sia resa dinamica in molti modi diversi, o quanto la storia non si adagi sui soliti clichè visivi ma abbia una sua voce unica. Sono forse gli elementi più importanti per centrare il proprio genere, e Monolith non li sbaglia.