[TSFF 2016] Sotto L'Ombra, la recensione

L'orrore di Sotto L'Ombra è tutto intorno alla protagonista, nella società in cui vive, nelle persone che incontra, fino ad entrarle in testa come un demone

Critico e giornalista cinematografico


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La cosa migliore di Sotto L’Ombra è il mondo che crolla intorno alla protagonista, che si modifica e si deforma come in una delle dimensioni parallele del Doctor Strange, ma senza nessun effetto visivo e senza nessun brutale stacco tra vero e finto. Lentamente, di scena in scena, la realtà che la circonda si incrina assieme al palazzo in cui abita con la figlia e in cui rimane sola.
A Teheran negli anni ‘80 è arrivato il regime teocratico che vige tutt’ora, l’integralismo religioso ha preso il potere dello stato e tutto è cambiato. Il film è ambientato durante la lunga guerra con l’Iraq, sono i giorni in cui l’arrivo di bombardamenti spinge molti a lasciare la città, ma non la protagonista che nel suo appartamento vuole rimanere fino a che non riesce a trovare la bambola di sua figlia, che intanto ha una febbre sempre più forte e sostiene sia un demone ad averla presa, per dimostrare di non essere una cattiva madre.

A partire dalla prima scena in cui per via del suo passato da attivista politica le viene negato il diritto a proseguire gli studi di medicina, il mondo crolla intorno alla protagonista. C’è un’elegante e innaturale nuvola di fumo fuori dalla finestra in cui le viene data la notizia, ma pare notarla solo lei. Dopodichè grotteschi missili giganti inesplosi entreranno nell’appartamento sopra il suo ed eventi sempre meno spiegabili la ossessioneranno assieme al giudizio sociale, mentre nemmeno più i proibitissimi VHS dell'aerobica di Jane Fonda promettono un altro mondo.
Non è difficile immaginare come tutto questo sia una maniera di manifestare l’oppressione che una donna relativamente emancipata vive dentro e fuori casa, il suo sentirsi inadeguata a tutto, anche all’educazione di sua figlia.

Non è perciò il parallelo tra demoni casalinghi e oppressione reale a stupire in questo Babadook persiano, ma come Babak Anvari (che il film l’ha girato con fondi americani, giordani e del Qatar) conduca il film lentamente su un piano irreale. È la lenta consapevolezza che tutto quel palazzo, con molta calma diventa la testa della protagonista, un luogo di paure e violenze, pieno di crepe riparate con lo scotch, in cui il demone indossa un chador, cioè il velo completo e i vicini sono più una minaccia che un aiuto. Un luogo in cui gli uomini sono assenti o morenti e uscita dal quale c’è un mondo paradossalmente ancora peggiore. Se nel neorealismo italiano la tragedia dei singoli si misura nell’assenza dello stato che lascia gli uomini liberi di sbranarsi, qui chi scende in strada urlando disperata e spaventata, senza velo per la fretta della fuga, sì sente rispondere: “Beh?! Che cos’è quest’abbigliamento? Che siamo in Europa??”.

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