True Detective 2x04 "Down Will Come": la recensione

Giro di boa per True Detective, il paragone con la prima stagione, anche per colpa della serie, ormai è inevitabile

Dal 2017 sono Web Content Specialist l'area TV del network BAD. Qui sotto trovi i miei contatti social e tutti i miei contenuti per il sito: articoli, recensioni e speciali.


Condividi
Spoiler Alert
Tanto tempo fa, in un universo che sarebbe semplice scambiare per il nostro, ma nel quale sotto la superficie si agitavano forze quasi sovrannaturali, un giorno un saggio intagliatore di lattine disse: "Time is a flat circle, everything we've ever done or will do, we're gonna do over and over and over again". Certo, quel saggio era anche un po' pazzo, ma su questa tesi che sa tanto di condanna non aveva tutti i torti. Ad uno sguardo più distante, e completo, sulla seconda stagione di True Detective giunta all'importante traguardo del giro di boa, la pena da scontare nell'inferno in terra delimitato dalle strade della California pare proprio quella di dover ripetere in eterno determinati comportamenti, ricadendo inevitabilmente in paragoni che al principio di questo viaggio avevamo con forza sostenuto di non voler fare.

Down Will Come è un episodio difficile da decifrare e da seguire, che poi è una descrizione facilmente applicabile in generale alla prima metà di stagione. Per tutta la puntata il mood è quello classico, fatto di teste basse e volti grigi, di intricati legami e di domande senza risposta. Lacrime, corpi che scompaiono nella notte, "fuck!" urlati al cielo e tanta, tantissima disperazione. Il cielo della Seattle di The Killing non era mai indifferente alla depressione dei suoi protagonisti, ma rispondeva, faceva da cornice con la sua pioggia incessante e i suoi nuvoloni neri. Los Angeles invece non ha pietà. Chi cammina tra polvere e sangue lo fa schiacciato da un sole accecante, in quest'isola tra fiumi di asfalto, e nulla potrà mai essere migliore perché non c'è nulla da aspettare e soprattutto perché "ognuno ha il mondo che si merita".

Nic Pizzolatto espone quindi un mondo a tesi, in cui ogni elemento scenico è parte della visione caustica –  tra Chinatown e Raymond Chandler – di un mondo marcio in ogni sua figura e apparato. È una tesi che ha la forza delle sue convinzioni, che gioca a metà tra il fascino della prima stagione e un'impostazione da film di genere degli anni '70 (tanto che se non fosse per qualche linea di dialogo potrebbe quasi essere una vicenda ambientata decenni fa). Il problema centrale allora non è la lentezza – chiamiamola così perché noia sembra troppo soggettivo – della narrazione, ma la scrittura, la costruzione dei personaggi, e soprattutto il senso onnipresente di artificiosità. È un peccato perché la storia in sé è più che valida, perché Velcoro è un buon personaggio e perché Ani cresce di settimana in settimana, ma non basta.

Tutto è in un certo modo non perché la vicenda segue un suo corso naturale, ma perché dall'alto una visione – che è quella del creatore/sceneggiatore – interviene per imporsi in questo modo, o almeno lo fa in modo troppo esplicito. A questo punto viene il dubbio che nel contratto di Vince Vaughn ci sia un accordo per il quale ogni episodio si deve aprire con un aforisma, sempre più fuoriluogo (stavolta si parla di adozioni) del suo personaggio. Al di là della ripetitività delle situazioni, che possono anche avere un senso nell'ottica di un personaggio che a un passo dalla realizzazione del suo sogno ha perso tutto, è il tono eccessivo e ipercostruito a non funzionare: emblematico un momento di confronto in una pasticceria con dei russi che dovrebbero rifornirlo nello spaccio di droga.

Taylor Kitsch e il suo Paul, sul quale con una certa indifferenza scopriamo qualcosa in più, sono completamente avulsi dalla vicenda principale. A questo punto si può concludere che quattro protagonisti per una miniserie da otto puntate sono troppi, o che il team non è stato in grado di gestire bene i tempi. Perché nonostante le lacrime che giganteggiano sulla guancia di un personaggio e una decina di "fuck" gridati in mezzo ad una strada, non c'è un solo momento in cui la figura di Woodrough in quattro episodi sia riuscita ad uscire dall'anonimato e andare a occupare quel ruolo di terzo pilastro dell'indagine insieme a Antigone e Velcoro.

L'episodio scorre così, fino al confronto finale con una banda di messicani. Qualcuno avrà fatto una soffiata? Antigone si è dimostrata completamente impreparata nel gestire un'operazione di questo tipo? In entrambi i casi può darsi, ma non si può far finta che l'epilogo sanguinoso dell'episodio voglia fare il verso all'ormai celebre piano sequenza della prima stagione. Non ci riesce, naturalmente, ma non è questo il problema, in fondo non è una scena facile con cui confrontarsi. Il problema è che, nonostante le molte aspettative con le quali era iniziato il secondo anno, il desiderio di goderci un buon prodotto televisivo ci aveva spinti a ignorare per quanto possibile il paragone con la scorsa stagione. Ma è la stessa serie a tornare ancora e ancora a quello show, così diverso e irripetibile, per dare forza al suo stile.

Il paragone a quel punto va fatto, l'asticella va alzata, e magari si iniziano a notare cose che altrimenti sarebbero passate in secondo piano, come l'assoluta inadeguatezza delle forze dell'ordine che procedono in buon ordine in mezzo ad una strada, come l'eccessività di un massacro incondizionato in pieno giorno contro civili, come il fatto che alla fine gli unici a rimanere in piedi siano i nostri. È in questi momenti che True Detective cessa di essere un discreto poliziesco per rintanarsi nell'ombra di ciò che è stato, negli elementi che davano forza al primo anno e che ora vengono riciclati come copia sbiadita.

Se serie antologica vuol dire libertà di sperimentare ogni anno qualcosa di nuovo ben venga, saremo i primi a ignorare il passato. Se vuol dire riproporre lo stesso tono, stile e caratterizzazioni perché, come si dice, "more of the same", allora è il prodotto stesso a condannarsi ad un paragone dal quale ne esce con le ossa rotte.

Continua a leggere su BadTaste