True Detective 2x04 "Down Will Come": la recensione
Giro di boa per True Detective, il paragone con la prima stagione, anche per colpa della serie, ormai è inevitabile
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Down Will Come è un episodio difficile da decifrare e da seguire, che poi è una descrizione facilmente applicabile in generale alla prima metà di stagione. Per tutta la puntata il mood è quello classico, fatto di teste basse e volti grigi, di intricati legami e di domande senza risposta. Lacrime, corpi che scompaiono nella notte, "fuck!" urlati al cielo e tanta, tantissima disperazione. Il cielo della Seattle di The Killing non era mai indifferente alla depressione dei suoi protagonisti, ma rispondeva, faceva da cornice con la sua pioggia incessante e i suoi nuvoloni neri. Los Angeles invece non ha pietà. Chi cammina tra polvere e sangue lo fa schiacciato da un sole accecante, in quest'isola tra fiumi di asfalto, e nulla potrà mai essere migliore perché non c'è nulla da aspettare e soprattutto perché "ognuno ha il mondo che si merita".
Tutto è in un certo modo non perché la vicenda segue un suo corso naturale, ma perché dall'alto una visione – che è quella del creatore/sceneggiatore – interviene per imporsi in questo modo, o almeno lo fa in modo troppo esplicito. A questo punto viene il dubbio che nel contratto di Vince Vaughn ci sia un accordo per il quale ogni episodio si deve aprire con un aforisma, sempre più fuoriluogo (stavolta si parla di adozioni) del suo personaggio. Al di là della ripetitività delle situazioni, che possono anche avere un senso nell'ottica di un personaggio che a un passo dalla realizzazione del suo sogno ha perso tutto, è il tono eccessivo e ipercostruito a non funzionare: emblematico un momento di confronto in una pasticceria con dei russi che dovrebbero rifornirlo nello spaccio di droga.
L'episodio scorre così, fino al confronto finale con una banda di messicani. Qualcuno avrà fatto una soffiata? Antigone si è dimostrata completamente impreparata nel gestire un'operazione di questo tipo? In entrambi i casi può darsi, ma non si può far finta che l'epilogo sanguinoso dell'episodio voglia fare il verso all'ormai celebre piano sequenza della prima stagione. Non ci riesce, naturalmente, ma non è questo il problema, in fondo non è una scena facile con cui confrontarsi. Il problema è che, nonostante le molte aspettative con le quali era iniziato il secondo anno, il desiderio di goderci un buon prodotto televisivo ci aveva spinti a ignorare per quanto possibile il paragone con la scorsa stagione. Ma è la stessa serie a tornare ancora e ancora a quello show, così diverso e irripetibile, per dare forza al suo stile.
Il paragone a quel punto va fatto, l'asticella va alzata, e magari si iniziano a notare cose che altrimenti sarebbero passate in secondo piano, come l'assoluta inadeguatezza delle forze dell'ordine che procedono in buon ordine in mezzo ad una strada, come l'eccessività di un massacro incondizionato in pieno giorno contro civili, come il fatto che alla fine gli unici a rimanere in piedi siano i nostri. È in questi momenti che True Detective cessa di essere un discreto poliziesco per rintanarsi nell'ombra di ciò che è stato, negli elementi che davano forza al primo anno e che ora vengono riciclati come copia sbiadita.
Se serie antologica vuol dire libertà di sperimentare ogni anno qualcosa di nuovo ben venga, saremo i primi a ignorare il passato. Se vuol dire riproporre lo stesso tono, stile e caratterizzazioni perché, come si dice, "more of the same", allora è il prodotto stesso a condannarsi ad un paragone dal quale ne esce con le ossa rotte.