True Detective 1x08 "Form and Void" (season finale): la recensione

Ultimo episodio di stagione per True Detective: ecco come si conclude la caccia al serial killer

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Spoiler Alert
Dopo aver oscillato per sette episodi tra presente e passato, in una non meglio definita dimensione temporale nella quale il raccordo delle sensazioni è l'unica misura della verità, ben più dello sciogliersi di una versione personale in un'altra, True Detective chiude il cerchio ("time is a flat circle") con un epilogo malinconico e in parte consolatorio. Rust giunge infine, diciassette anni dopo il suo incontro con il mostro dell'incubo, nella tana dove si nasconde il caos strisciante, non metafisico come il riferimento lovecraftiano (l'autore è indirettamente presente nella serie) potrebbe far pensare, ma spaventosamente umano, e proprio per questo non meno disturbante. Form and Void oltrepassa gli indizi gettati, consapevolmente o meno, dalla scrittura negli episodi precedenti, per ridurre il racconto alla sua conclusione più prevedibile e canonica, forse anche troppo meccanica in alcuni frangenti, ma comunque molto soddisfacente.

Dopo la tesa e rivelatoria conclusione di After You've Gone, le teorie circa un possibile coinvolgimento di Rust Cohle o Marty Hart negli omicidi seriali erano destinate ad essere smentite, e così è successo. I sospetti, ben presto certezze, si incanalano quindi in direzione della figura di Errol, tanto surreale e caricata da rasentare l'archetipo. In un prologo secco, sporco, quasi disgustoso nel mostrare il marciume che domina questo individuo tanto nelle apparenze che nell'anima nera più profonda, scopriamo tutto ciò che ci serve sapere su questa figura. Errol, che vive immerso nel putridume, in un rapporto semincestuoso, tra torture e altri orrori innominabili, è l'ombra umana che dà forma a quell'oscurità parte della contrapposizione fondamentale di cui si parla nel dialogo finale. È l'orco delle fiabe, è il LeatherFace di Non aprite quella porta, è il pedofilo di M che annunciava la sua presenza fischiettando un motivetto (esattamente come fa Errol).

Nessuna sorpresa, con un carico simbolico e sopra le righe di tale portata, che nel climax finale la dimensione surreale e apocalittica prenda il sopravvento sulla narrazione più ordinaria. Tutto si compie in un'ultima folle corsa l'inseguimento nel non-luogo di Carcosa, che emerge dalle tenebre stringendosi sui due detective, attirandoli sempre più all'interno, fino al nucleo più nascosto dove per un attimo è possibile scorgere quasi una porta per un'altra dimensione. Per Cohle rappresenta il culmine del suo malcelato tendere all'autodistruzione e alla morte, il compimento di una sentenza che aspetta di veder eseguita da vent'anni, forse il modo per espiare una colpa per la scomparsa della figlia. Ma non è così. Forse unico evento davvero contro le aspettative, considerato anche ciò che vediamo ad un certo punto, entrambi i detective riescono a sopravvivere, e in tutto questo c'è anche spazio per un finale consolatorio e quasi ottimista, per certi versi contrario al mood mostrato finora.

Nella distensiva e malinconica parentesi finale arriva infatti il doppio e parziale riscatto per i peccati commessi dai due. Rust non riuscirà a perdonarsi per la morte della figlia, ma tenterà di andare avanti dopo aver ritrovato un amico, Cohle non tornerà mai – probabilmente – con Maggie, ma avrà ritrovato un contatto con la sua famiglia. Le accuse naturalmente cadranno nel vuoto, respingendo i due detective Gilbough e Papania nel vuoto strumentale dal quale sono usciti fuori, e in qualche modo il tempo, dopo aver riallacciato correttamente i fili tra passato e presente, potrà riprendere a scorrere in un'unica direzione. Niente più Re Giallo (il riferimento letterario a Chambers e al Lovecraft che si diceva all'inizio), niente più strane spirali simboliche, niente più Tuttle. La serie glissa proprio nel finale su molti di questi aspetti che reggevano la mitologia interna della serie, lasciando alcuni punti nell'oscurità. È una mancanza? Probabilmente sì, ma considerato l'estremo fascino di una narrazione che fin dal principio, tanto nelle dichiarazioni del creatore quanto nella scrittura delle puntate, ha rimarcato come la vicenda del serial killer paradossalmente non fosse il tema centrale che si voleva raccontare, ci può anche stare.

C'è qualcosa nelle scelte per questo finale di True Detective che potrebbe ricordare ciò che è stato realizzato pochi mesi fa con Breaking Bad. La volontà di non puntare sullo shock narrativo quanto sulla tensione emotiva e sul giusto percorso dei personaggi, la decisione di rinunciare ad un ultimo sussulto nella trama per riportare ogni cosa sui binari attesi e, inevitabilmente, prevedibili. La scrittura di Nic Pizzolatto ha giocato sporco nel fornirci delle false piste, o forse siamo noi ad essere caduti nel tentativo di anticipare una serie che in fondo voleva raccontare, seppur in maniera splendida, una storia già vista molte volte? In attesa di una seconda visione che magari chiarisca qualche dubbio, ci teniamo stretto ciò che questo primo giro ci ha offerto, e non è poco.

Anche in quest'ultima parte la regia di Cary Fukunaga, che ingiustamente forse verrà accostata solo al comunque bellissimo piano sequenza di Who Goes There, incasella perfettamente il racconto della storia. È cornice di orrore e disperazione, ma anche finestra sull'aspro, statico, avvilente e isolato panorama della Louisiana, che in più di un momento reclama e ottiene il proprio spazio, come in alcune carrellate dall'alto che sembrano accentuarne la natura quasi onirica. Ci mancheranno i voli pseudofilosofici un po' folli, ma tremendamente affascinanti, di Rust, e le sue discussioni in macchina con Marty, e ci mancheranno ovviamente questi due interpreti, Matthew McConaughey e Woody Harrelson, ai quali è difficile rendere giustizia in poche parole. Se True Detective è stato grande (e di successo, tanto da far crashare il servizio streaming della HBO durante il finale), è perché in primo luogo lo sono stati loro.

La passerella finale è tutta per loro, un dialogo sul bene e sul male ridotti alle loro essenze più pure: la luce e l'oscurità. I primi versetti della Genesi, da cui forse è tratto il titolo dell'episodio, recitano: The earth was without form and void, and darkness was over the face of the deep. All'inizio tutto era oscurità, ma poi qualche stella ha iniziato a brillare, e Rust e Cohle, dopo aver attraversato il loro inferno personale, si sono meritati di uscire a rivederle.

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