Lo scrivevamo la
scorsa settimana.
True Detective inquadra la propria struttura narrativa in uno spazio quadrimensionale, che vive di sensazioni e avvenimenti spalmati su diciassette anni, che oscilla come un pendolo tra passato e presente, elemento interno ad una vicenda che si sviluppa come un
doppio flashback (dalla settimana prossima soltanto uno) ed esterno ad una serie che vive della propria totale autoconsapevolezza, della possibilità di potersi guardare dall'esterno nella propria completezza, assodato che in otto puntate ogni cosa si concluderà. Come
Cohle, che accartoccia una lattina per simulare la comprensione tra avvenimenti passati e presenti, che cita a più riprese l'
eterno ritorno nietzschiano, che trae forza dalla distruzione del mostro dell'incubo solo per ripiombare in quel sogno nero pochi anni più tardi. È l'episodio della svolta per
True Detective, che risponde a molte domande, che chiude alcuni segmenti, che accartoccia la fisarmonica della storia, finché, un po' come per la lattina di Cohle, ogni cosa assume un solo luogo e un solo tempo.
"Time is a flat circle". Il Cohle del passato assume l'aforisma d'ispirazione nietzschiana da Reggie Ledoux, poco prima che Hart, impazzito per la visione dei bambini segregati in casa, faccia saltare la testa al maniaco. Il Cohle del presente, addirittura diciassette anni dopo, ripete le stesse parole ai due detective che, evidentemente, sospettano di lui per il ritorno degli omicidi seriali. Questo è True Detective: un continuo oscillare tra presente e passato per comprendere la verità. Ci è stato detto del mostro dell'incubo, un episodio ci ha lasciato con un cliffhanger sospeso tra sogno e realtà, e infine abbiamo scoperto come la parte onirica, o meglio illusoria, fosse quella preponderante. Hart e Cohle mentono, si coprono l'un l'altro. E la tecnica li segue, li spalleggia, sovrapponendo la voce narrante di McConaughey ad eventi che non corrispondono a ciò che afferma.
Rust Cohle dunque, che fa suo il pensiero di Ledoux, e senza forzarsi eccessivamente. Credere nella circolarità di ogni cosa significa assumere l'impossibilità di sfuggirvi, significa escludere la speranza di un riscatto, di una salvezza. La figlia di Rust continuerà a morire e lui a soffrirne, a contestare apertamente qualunque aspirazione alla salvezza di matrice religiosa, che sia da ricondurre a sette oppure no (anche questo elemento presente in Nietzsche). E Hart non è da meno. Nel gioco delle parti future interpreta il ruolo dell'uomo che ce l'ha fatta, che ha guardato in faccia l'abisso senza lasciare che quello scrutasse dentro di lui, ma noi, che scena dopo scena ci allontaniamo sempre più dalla ristretta prospettiva dell'ora e dell'adesso per vedere il quadro completo, sappiamo che non è così. La vicenda matrimoniale di Hart, fatta delle proprie scappatelle, di un matrimonio traballante, di una figlia quasi perduta, è lo specchio di una fragilità che esce dal ruolo con esplosioni di violenza inattese. Certo, Cohle è quello pazzo, quello dei voli filosofici e del
nichilismo più totale, ma è Hart a premere il grilletto. Non senza una certa sorpresa, lo riconosciamo, rispetto a quello che fino a quel momento ci era stato mostrato del protagonista.
Dopo una parentesi centrale canonica e lineare, un semplice interrogatorio instilla il sospetto del ritorno del Re Giallo. Probabilmente chi crede nel male non fa altro che aspettarsi conferme di ciò, e Cohle si fa risucchiare ancora una volta in un'indagine che lo consumerà. Ogni elemento sembra puntare in una direzione, quella della colpevolezza di Cohle. Si tratta di un personaggio evidentemente disturbato, che trova coscienza di sé nella caccia ad un male inafferrabile, astratto, emblematico. Ma sarà davvero così ovvio? Massima fiducia a Nic Pizzolatto e alla sua scrittura finora eccelsa.
Settimana dopo settimana
True Detective condivide lo spazio frammentario di due esistenze. Lo fa da una prospettiva alta, ma con l'umiltà di porgersi con un linguaggio affascinante e intelligente, che ci permette di sedere sul piedistallo accanto alla serie e di osservare la storia dall'alto, conoscendone sempre più elementi a mano a mano che le nuvole si diradano.
The Secret Fate of All Life è forse il miglior episodio andato in onda finora, quello più completo e accattivante. Una puntata che recupera il mood dei primi tre episodi, senza tuttavia allentare la tensione narrativa sviluppata nel quarto episodio, portando molto avanti la storia, rispondendo a varie domande.
La tecnica è semplicemente straordinaria. Facile – si fa per dire – andare sotto i riflettori con un piano sequenza da sei minuti come quello di Who Goes There, ma True Detective dimostra una peculiare attenzione, che si rinnova di appuntamento in appuntamento, per ogni elemento tecnico, sia la fotografia, sia la gestione degli spazi, sia un semplice movimento di macchina che conclude l'episodio e che inquadra Cohle in una finestra all'interno di un fatiscente palazzo, con degli alberi morti disegnati alle pareti. Una tecnica sottile, intelligente e che si presta anche a doppie letture, rimarcando ancora una volta il discorso metatelevisivo e la scrittura altissima che regge questa serie straordinaria.