True Detective 1x03 "The Locked Room": la recensione

Al terzo episodio True Detective si conferma una serie eccellente, assolutamente da non perdere

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The Locked Room, la spazio bianco che ha le dimensioni dell'infinito e la forma della mente umana. In uno dei suoi ormai classici slanci pseudoesistenziali Rust lo definisce un sogno, una dimensione onirica totalizzante che esce dall'irreale per invadere il mondo e restituirci la chiave di lettura della realtà. Ci dice anche che l'appiattimento su schemi morali e religiosi rigidi, preconfezionati, standardizzati, ha relegato ogni slancio verso la comprensione del mondo ad un banale autocompiacimento, ci dice che in un rapporto di reciproco condizionamento con l'ambiente devastato del profondo sud degli States quegli schemi mentali si sono chiusi in loro stessi, ormai completamente devastati da fanatismo e ignoranza. Ci dice che quella stanza adesso è davvero chiusa, e che noi siamo intrappolati dentro.

True Detective non è una serie per tutti, inutile negarlo. Lentezza quasi estenuante, verbosità e monologhi esistenziali portati all'eccesso, un costante e rimarcato disinteresse per il puro e classico avanzamento dell'indagine alla base del tutto. La serie di Nic Pizzolatto, settimana dopo settimana, sta estendendo le maglie della narrazione per raccontare il cordoglio di un intero sistema sociale, che non si piega sulla lapide della morta ammazzata di turno, ma esorcizza a suon di rituali più o meno accettabili o legali il fantasma della decadenza e della stasi che su ogni cosa incombe. Che è tipico nella rappresentazione di un certo fanatismo da terra di frontiera, o semplice terra di povertà (economica e intellettuale) che si distanzia dalla ricchezza, anche qui economica e intellettuale, delle metropoli per cedere a manifestazioni più concrete e spettacolarizzate.

True Detective è la Louisiana, ma è soprattutto la rappresentazione, spesso paradigmatica e assoluta, del macrocosmo radicale ed estremo del profondo sud degli States. La HBO ci aveva già trasportato in queste zone con Carnivàle (bellissima serie da recuperare assolutamente nonostante un finale monco), e già allora il degrado ambientale si sposava con un ritualismo di stampo folkloristico, ma non solo. Siamo nel sud degli States, degli assassini seriali per eccellenza, nel Texas del Faccia di Cuoio di Non aprite quella porta, nel deserto del Nevada di Le colline hanno gli occhi. Horror, thriller o poliziesco non cambia molto: la matrice e radice comune del male è sempre la stessa. A quel punto non desta più sorpresa nemmeno il riferimento al Re in giallo di Robert W. Chambers, spunto fondamentale nell'opera del più famoso Lovecraft.

L'avevamo già detto la scorsa settimana: lo stile di narrazione scelto per True Detective si sposa perfettamente con le sensazioni e le tematiche che reggono la serie. La stasi, la degradazione, il malessere endemico alla società, umanizzato nei due detective, più esteriorizzato nel caso di Rust (e dei suoi monologhi filosofeggianti), più interiorizzato nel caso di Martin. Potrebbe sembrare un paradosso, ma forse quello più aperto e più sincero tra i due è proprio il personaggio di McConaughey, mentre Harrelson persiste nel dare il volto ad un uomo evidentemente scontento – in questo mondo lo sono tutti – ma anche in bilico tra verità e menzogna. Qualcosa, e decisamente qualcosa di grosso, giunge infine in conclusione di puntata, preludio ad uno scontro anticipato dalle parole a distanza dei due, ma anche da un'inquietante immagine di un "mostro".

Con tutti questi giri di parole si rischia di perdere alcuni aspetti centrali, quindi diciamolo chiaramente. True Detective è una serie scritta in modo magistrale, intepretata benissimo, tecnicamente impressionante, che lancia costantemente spunti, riflessioni, interi dialoghi che andrebbero destrutturati e analizzati. Magari in prospettiva, quando alla fine della stagione avremo tutto il quadro completo. Per ora si limita ad essere la serie assolutamente da non perdere del momento. Scusate se è poco.

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