Troppo cattivi, la recensione

A partire da idee tarantiniane ma anche da ispirazioni miyazakiane nell'animazione, Troppo cattivi è un film pigro nella scrittura ma dal grande stile

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Troppo cattivi, dal 31 marzo nelle sale

La sua ispirazione tarantiniana Troppo cattivi la dichiara subito, con un pugno di citazioni nell’attacco. Un diner, due gangster che parlano di qualcosa di ordinario, un atteggiamento casual a fronte di un lavoro pericoloso e poi, se proprio non fossimo sicuri, sulla parete una foto dei personaggi nella stessa posa di Le iene. Quello che seguirà però non avrà niente di tarantiniano, anzi sarà in un certo senso la sua negazione. Il cinema di Tarantino si basa su uno strano senso del cool, su personaggi spesso nerd nei gusti che tuttavia hanno un carattere così marcato e princìpi così marcati (princìpi che sono i primi ad articolare e spiegare con dovizia) da essere memorabili. Troppo cattivi invece ha l’ansia della coolness, e tratteggia i suoi personaggi con il manuale della figheria banale. Tutto ciò che su carta dovrebbe essere cool, ma inevitabilmente finisce per non esserlo.

Certo, stavolta la Dreamworks dispiega uno sforzo produttivo e soprattutto stilistico degno dei suoi exploit migliori (Dragon Trainer, Kung Fu Panda) con un’illuminazione eccezionale della metropoli al tramonto e uno stile per il design dei personaggi che si stacca dalle rotondità più o meno fotorealistiche che hanno dominato negli ultimi 30 anni la computer grafica animata e va a guardare più alla stilizzazione di Spider-man: un nuovo universo.

Il regista Pierre Perifel viene dalla direzione dell’animazione e si vede. Le contaminazioni sono tante e lo stile finale è il risultato di più ispirazioni (eccezionale come rimetta in circolo tante idee del primissimo Miyazaki, quello di Lupin e Il fiuto di Sherlock Holmes, sia nei movimenti di Wolf che nelle corse in auto).

Più sempliciotta invece è la storia, che vede degli animali considerati cattivi (squalo, tarantola, serpente, piranha, lupo…) inquadrati da uno stereotipo, adagiato nel loro ruolo di criminali, scoprire come il cambiamento sia possibile e non per forza debbano essere quello che la società vuole che siano. È lo stesso concetto con il quale Zootropolis creava una parabola politica molto sofisticata, facendo passare il pubblico dall’ammirazione per lo scenario utopico alla condanna della sua violenza sugli individui. Qui è tutto più sbattutto in faccia, pedissequo, letterale e didattico.

Colpa di una scrittura per niente a livello dell’animazione, pigrissima, capace di mandare in porto con sicurezza e fermezza un film corretto, ma mai all’altezza delle ambizioni che manifesta. Lo si capisce da come i personaggi si lodino a vicenda, di fatto dicendo al pubblico quanto siano ammirabili, ma lo si capisce anche dal difetto numero uno del cinema mainstream contemporaneo, l’incapacità di gestire personaggi femminili e dargli reale risalto. Come altrove anche qui un eccesso di abilità, perfezione, bravura e conoscenza distrugge qualsiasi possibilità di empatia e connessione con personaggi immacolati. Invece che dare profondità ai personaggi femminili, creando una storia che ne comprenda i problemi e le questioni, si creano dei modelli aurei da ammirare, svicolando il problema di un cinema maschile che passa dal non considerare le ragazze, a guardarle con ammirazione da lontano.

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