Troppo azzurro, la recensione
Vorrebbe essere un tipo diverso di commedia sentimentale Troppo azzurro, fondata su un protagonista e il suo mondo che però sono fastidiosi
La recensione di Troppo azzurro, il film d'esordio di Filippo Barbagallo, in sala dal 7 maggio
Nella storia il protagonista (Dario) rimane a Roma d’estate mentre i genitori partono per la casa di villeggiatura (come molti protagonisti di film italiani è altoborghese e anche per questo stona tantissimo Valerio Mastandrea come padre) Dario dopo un piccolo incidente conosce in ospedale una ragazza e rapidamente finiscono insieme (lo stesso inizio di La sposa turca, con esiti completamente diversi). Stanno per partire per una vacanza insieme ma Dario si tira indietro. Rimasto a Roma conosce un’altra ragazza, una che gli era sempre piaciuta, con la quale si manifesta la medesima insicurezza e reticenza a superare lo stadio di ragazzo e passare a quello di uomo. Le due storie d’amore confliggeranno con esiti di commedia che tuttavia non diventa mai davvero di commedia.
Si presenta come Enzo Jannacci, gioca a videogiochi che sembrano di 40 anni fa (ma siamo nel presente), guida una panda verde e sembra tarato tutto sul passato, fuori dal suo tempo, preso in situazioni strambe di un’Italia anni ‘70 che però (vale la pena ripeterlo) è sempre quella del presente. Sarebbe una caratterizzazione stilizzata se solo lo fosse, in realtà il solito naturalismo ben fatto. Ma Troppo azzurro è un film mal dialogato, in cui ogni interazione suona straniante perché meccanica (sia nella recitazione che nel montaggio). Così l’intento di avere molto carattere in realtà risulta nel suo opposto. Dario e il suo film sono la copia sbiadita di tutto, non hanno nessun carattere se non per un’innata tendenza a infastidire anche le stesse ragazze che ne sono inspiegabilmente attratte, le quali nemmeno a dirlo sono belle, autonome, moderne, sofisticate, intelligenti, risolute, abili, sincere, oneste, comprensive ecc. ecc. ecc.