Troppo azzurro, la recensione

Vorrebbe essere un tipo diverso di commedia sentimentale Troppo azzurro, fondata su un protagonista e il suo mondo che però sono fastidiosi

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Troppo azzurro, il film d'esordio di Filippo Barbagallo, in sala dal 7 maggio

Non funziona quasi niente in questo esordio di Filippo Barbagallo (tranne la fotografia di Lorenzo Levrini), attore, regista e sceneggiatore di Troppo azzurro, film-mondo in cui viene introdotto un protagonista da franchise all’italiana, uno di quei personaggi che si identificano con il proprio attore e che di film in film portano avanti una filosofia o (a seconda di come la si vede) sono il simbolo di un modo di vivere. È l’uomo tenero e un po’ inadeguato, innamorato delle donne e un po’ vigliacco, che le subisce mentre le ammira, e da cui però, inspiegabilmente, queste sono attratte. È l’uomo di Troisi, spettatore del cambiamento antropologico che, negli anni ‘80, presentava un nuovo tipo di donna risoluta capace di prendere in contropiede un tipo d’uomo che non aveva capito cosa fosse successo. L’uomo sensibile, troppo sensibile, ma dai gusti sofisticati, dalle buone letture, i cui difetti sono così evidenti da essere caratteristici.

Nella storia il protagonista (Dario) rimane a Roma d’estate mentre i genitori partono per la casa di villeggiatura (come molti protagonisti di film italiani è altoborghese e anche per questo stona tantissimo Valerio Mastandrea come padre) Dario dopo un piccolo incidente conosce in ospedale una ragazza e rapidamente finiscono insieme (lo stesso inizio di La sposa turca, con esiti completamente diversi). Stanno per partire per una vacanza insieme ma Dario si tira indietro. Rimasto a Roma conosce un’altra ragazza, una che gli era sempre piaciuta, con la quale si manifesta la medesima insicurezza e reticenza a superare lo stadio di ragazzo e passare a quello di uomo. Le due storie d’amore confliggeranno con esiti di commedia che tuttavia non diventa mai davvero di commedia.

Questo è il primo problema del film: è una commedia senza nessun tipo di leggerezza e umorismo veri, senza nemmeno il piacere della lettura frizzante di schermaglie sentimentali. Il secondo invece è tutto nel personaggio protagonista, che poi è l’asse su cui gira la storia. Dario per sua natura è un protagonista che cammina sul sottile crinale tra tenerezza e inadeguatezza, Barbagallo però non lo sa dosare e scrivere, quindi sembra solo fastidioso e cretino. È impossibile empatizzare con lui perché non ne comprendiamo a pieno i conflitti (li intuiamo, quello sì, ma comprenderli intimamente è un’altra cosa). E, come detto non sono nemmeno divertenti. È un personaggio arroccato, snob e vittimista. Se fosse un antieroe, qualcuno da cui prendere le distanze, sarebbe perfetto. Ma non è così.

Si presenta come Enzo Jannacci, gioca a videogiochi che sembrano di 40 anni fa (ma siamo nel presente), guida una panda verde e sembra tarato tutto sul passato, fuori dal suo tempo, preso in situazioni strambe di un’Italia anni ‘70 che però (vale la pena ripeterlo) è sempre quella del presente. Sarebbe una caratterizzazione stilizzata se solo lo fosse, in realtà il solito naturalismo ben fatto. Ma Troppo azzurro è un film mal dialogato, in cui ogni interazione suona straniante perché meccanica (sia nella recitazione che nel montaggio). Così l’intento di avere molto carattere in realtà risulta nel suo opposto. Dario e il suo film sono la copia sbiadita di tutto, non hanno nessun carattere se non per un’innata tendenza a infastidire anche le stesse ragazze che ne sono inspiegabilmente attratte, le quali nemmeno a dirlo sono belle, autonome, moderne, sofisticate, intelligenti, risolute, abili, sincere, oneste, comprensive ecc. ecc. ecc.

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