Trieste Science+Fiction 2018: Peripheral, la recensione
La recensione del film Peripheral, presentato al Trieste Science+Fiction Festival
La sua scelta la portano però a lottare contro se stessa, le richieste degli altri e una tecnologia sempre più invadente e in grado di controllare ogni aspetto della sua vita.
La sceneggiatura scritta da Dan Schaffer delinea una protagonista femminile la cui discesa verso la follia e la dipendenza da una sostanza che le è stata fornita dall'ex fidanzato (Elliot James Langridge) ha degli effetti visibili anche fisicamente e la portano a una consapevolezza maggiore nei confronti del proprio ruolo di scrittrice e di come si possa essere controllati da un sistema economico e politico in grado di fare progressivamente a pezzi l'integrità e l'identità di un individuo. Hannah Arterton riesce a dare vita con bravura a una donna che ama la solitudine e la letteratura del passato, dovendo però confrontarsi con una società contemporanea in cui essere diversi e "scollegati" dal resto del mondo risulta quasi un'anomalia da correggere con un nuovo software.
Rosie Day, con la sua parte di una fan pronta realmente a tutto pur di incontrare il suo idolo, regala una performance davvero ricca di sfumature, soprattutto nel finale in cui il personaggio assume ancora più importanza, e una buona dose di umorismo britannico, in particolare nelle sequenze in cui il tecnico arriva a installare i componenti aggiuntivi della macchina a casa di Bobbi, sostengono un lungometraggio appesantito da alcune ripetizioni, passaggi sopra le righe e scene psichedeliche. L'intensità della protagonista e l'esperienza di Hyett nel creare un'atmosfera claustrofobica e angosciante permettono a Peripheral di mantenere l'attenzione su una storia che riesce a trasmettere il suo messsaggio a favore della libertà creativa ed espressiva con grande chiarezza.