Tredici vite, la recensione

Ron Howard racconta questa storia con una freddezza ritmata: e così anche Tredici vite, pur provandoci duramente, intrattiene piuttosto bene ma non emoziona in nessun modo

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La recensione di 13 vite, in streaming su Prime Video dal 5 agosto

Lo avevamo detto per The Cave, poi ripetuto a proposito di The Rescue: adattare un’incredibile storia vera non equivale per forza a fare un film incredibile. Una cosa è la realtà che sembra cinema, un’altra il cinema che riadatta la realtà.

Terzo racconto del fatto di cronaca del 2018 che vide una giovane squadra di calcio thailandese intrappolata in una grotta allagata per più di due settimane, Tredici vite è, dopo i precedenti documentari (il primo thai, di Tom Waller, il secondo inglese con marchio National Geographic) il primo (a questo punto, chissà se l’ultimo?) film di finzione a produzione americana a rimettere in scena la famosa vicenda. 

Diretto da un regista abituato alla complessità hollywoodiana quale Ron Howard, Tredici vite è sicuramente tra i tre adattamenti la versione più “epidermicamente” coinvolgente: a differenza di The Cave  - che in questo senso era un disastro - riesce a gestire molto meglio la difficoltà della focalizzazione/punti di vista, prendendo come protagonisti eletti i due sommozzatori britannici, John e Rick (interpretati rispettivamente da Colin Farrell e Viggo Mortensen). Eppure, d’altra parte, rispetto a The Rescue racconta in modo molto più vago il fattore umano dell’impresa di salvataggio, finendo con l’impacchettare un film piuttosto fluido da seguire ma punteggiato qua e là di parecchi tempi morti e privo di un forte impulso narrativo.

La storia è sempre quella: dopo un pomeriggio passato a giocare a calcio, 13 ragazzini e il loro coach vanno a visitare per gioco la grotta di Tham Nam Lang (nord Thailandia). Improvvisamente comincia a piovere e rimangono così intrappolati in un incubo d’acqua e buio, dando il via ad un’azione di salvataggio internazionale (ci sono americani, inglesi, cinesi, australiani) che rimarrà nella storia della cronaca.

Tredici vite costruisce la vicenda inanellando diversi punti di vista: quello dei genitori, quello del governatore locale, dei ragazzini stessi e soprattutto dei due sommozzatori britannici (di cui si accenna una caratterizzazione oppositiva: John è quello più ottimista e idealista, Rick il disilluso che si ricrederà, anche se il suo arco narrativo è piuttosto mancato). Questa pluralità fa gioco a Ron Howard per creare più ritmo e variazione rispetto a una storia che in realtà, per quanto incredibile, alla fine è piuttosto ripetitiva. Si cerca il più possibile di mostrare momenti fuori dalla grotta, anche di mostrare la realtà locale (con piccoli inserti paesaggistici…). I momenti migliori alla fine però sono quelli - proprio come negli altri due film - in cui i sommozzatori si danno finalmente all’impresa vera e propria trascinando i ragazzi nella caverna sommersa mentre questi sono anestetizzati. Colin Farrell e Viggo Mortensen stanno semplicemente nel ruolo, non aggiungendo però niente alla meccanica esecuzione del loro obiettivo narrativo (ma questo è un problema di scrittura).

Ron Howard racconta questa storia con una freddezza ritmata: e così anche Tredici vite, pur provandoci duramente, intrattiene piuttosto bene ma non emoziona in nessun modo.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Tredici vite? Scrivetelo nei commenti!

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