Tre di troppo, la recensione
La commedia che rinuncia ad essere commedia, Tre di troppo cerca solo di esaltare la famiglia a tutti i costi per un pubblico di genitori
La recensione di Tre di troppo, il film di e con Fabio De Luigi al cinema dal primo gennaio
La trama (remake di un film francese) mette una coppia single soddisfatta e piena di interessi, che disprezza i bambini e le famiglie, come per magia a contatto con tre figli già grandi, in età preadolescenziale. Di colpo, un mattino. Schifati all’inizio, disperati e distrutti dai cambiamenti che la vita in 5 porta nel loro equilibrio (e nei loro fisici), tentano di disfarsene fino a che non rimangono conquistati dal caldo amore della famiglia italiana (che poi sarebbe famiglia francese ad essere filologici ma ci siamo capiti). Il classico spunto interessante che poi non sì traduce in un film capace di reggerlo per tutta la sua durata ma che si affloscia già a metà.
Come già in Tiramisù Fabio De Luigi alla regia ha una mano inesistente, punta l’obiettivo verso chi parla e non ha un’idea chiara della storia che vuole raccontare. Mira unicamente ad una chiarezza sfiancante. L’umorismo non ha nulla da dire specialmente sulla vita in famiglia, nulla di diverso da “è bello perché ci sì vuole bene”. I comparti critici per il cinema italiano (scenografia su tutti) non sono curati come al solito e si vede (ambienti senza personalità, case tutte uguali per qualunque personaggio). I bambini a cui vengono messe in bocca sentenze da adulti e che psicanalizzano i genitori lo fanno come sempre recitando malissimo. Le comparse infine non sono mai curate, somigliano ai NPC (non playable characters) dei videogiochi, presenze con cui interagire superficialmente, per formule. Tutto ciò mette in piedi un mondo intorno ai protagonisti fasullo e di plastica.
Le uniche immagini che cercano di raccontare il senso di famiglia vengono dall’estetica pubblicitaria: Tre di troppo abdica quindi alle convenzioni del cinema (inventarne di proprie chiaramente sarebbe impossibile) e adotta quelle degli spot, le colazioni che promuovono biscotti e marmellate. È lì, proprio con quelle immagini, cioè il massimo del convenzionale, dello standardizzato e del fasullo, creato per vendere una realtà che non c’è, che il film vorrebbe raccontare la famiglia. L’antitesi del cinema.